Enrico Maria Radaelli, che per tre anni è stato collaboratore alla cattedra di Filosofia della Conoscenza di Antonio Livi (sezione Conoscenza estetica) presso la Pontificia Università Lateranense, attualmente, oltre ad essere il curatore unico dell’Opera omnia del celebre teologo Romano Amerio, è docente di Filosofia dell’estetica e direttore del Dipartimento di Æsthetic Phylosophy presso l’ISCA di Roma (la International Science and Commonsense Association).
In esclusiva per LA FEDE QUOTIDIANA, l’autore dei saggi La Chiesa ribaltata e Street Theology (acquistabili, oltre che nelle librerie, con dedica qui: E-MAIL) risponde approfonditamente e con un linguaggio particolarmente forbito, ad alcune domande su alcuni temi scottanti relativi alla Chiesa Cattolica.
Quali sono le sue riflessioni relativamente alle ultime affermazioni del Papa sui gay e sui trans?
«Premesso che il fine della mia risposta è quello di contribuire a ridare unità alla Chiesa, in tutta purezza e pace, in intima comunione di spirito con le più sante intenzioni del Papa, «dolce Cristo in terra» (copyright santa Caterina da Siena), secondo il monito di Papa Pio XII, «si trovano in pericoloso errore coloro che ritengono di poter aderire a Cristo, Capo della Chiesa, pur non aderendo devotamente al suo Vicario in terra» (Mystici Corporis, I), devo, tuttavia, rilevare che questi son tempi calamitosi, e, scorrendo la storia della Chiesa, in cui a fulgidi Papi se ne intermisero non raramente di pessimi, possiamo ben esclamare: beati i tempi in cui il Ludwig Von Pastor poteva enumerare, tra gli indegni, uomini macchiati “solo” di peccati di simonia e ladrocinio, o che, ancora rigettando la speciale e continua assistenza assicurata dallo Spirito Santo al loro altissimo Soglio, si pervertirono in epicurei, in libidinosi, in impuri, in iracondi, persino in omicidi, sempre circoscrivendo però le proprie rivoltanti aberrazioni nell’area dei delitti contro la Caritas, e giammai adversus Veritas: persino il Borgia si studiava di non dar scandalo con insegnamenti che infirmassero in qualche modo la dottrina. Ora invece, da quando Papa san Giovanni XXIII ha messo da parte «le armi del rigore», come volle chiamare la giustizia nel suo Discorso di apertura del concilio Vaticano II, tutto a favore «della medicina della misericordia», così delineando il Cardo pastorale che la Chiesa percorrerà da quel momento, le perplessità delle greggi intorno ad alcune parole papali si fanno – a torto o a ragione – di giorno in giorno sempre più numerose e forti, anche perché molte di quelle pur papali parole non hanno l’aria di essere magistero ufficiale, non essendo riportate negli Acta Apostolicæ Sedis».
Però sono pur sempre proferite da un Papa. E allora, che dire?
«Se per esempio un Papa racconta di «un papà che si è accorto che nei libri di scuola si insegnava la teoria del ‘gender’» e dice: «questo è contro le cose naturali», poi però aggiunge che «una cosa è che una persona abbia questa tendenza, questa opzione …. E un’altra cosa è fare l’insegnamento nelle scuole su questa linea, per cambiare la mentalità», chi mai oserà rilevare la contraddizione delle sue parole, che giustamente rilevano che la teoria gender è contro natura, ma secondo le quali però la persona che pur segue tale pessimo insegnamento non agirebbe contro natura? Oppure: se, a proposito della corruzione degli uomini, un Papa ammonisce che «il peccato si può perdonare, ma la corruzione no, perché è uno stato in cui si pensa di bastare a se stessi, si è fissati nelle proprie cose, si pensa di non aver bisogno di perdono, e soprattutto ci si autogiustifica», perché mai le stesse considerazioni non dovrebbero valere per un divorziato? Basterebbe infatti sostituire ‘corruzione’ con ‘divorzio’, e l’analogia si farebbe lampante: “il peccato si può perdonare, ma il divorzio no, perché [quello del divorziato] è uno stato in cui si pensa di bastare a se stessi, si è fissati nelle proprie cose, si pensa di non aver bisogno di perdono, e soprattutto ci si autogiustifica”. Idem, e ancor più, se sostituiamo ‘corruzione’ con ‘divorziato risposato’. Ora: quando qualche Papa peccava contro la Carità, vescovi, arcivescovi e parroci si davano da fare in tutti i modi per nascondere quei delitti ai fedeli, e se ciò diveniva impossibile, almeno ammonivano: «Fate ciò che dicono, ma non ciò che fanno» (Mt 23,3). Ma se a qualcuno pare che in qualche modo oggi un Papa non interpreti la dottrina come in sæcula, ossia, certo non volendo, certo mal consigliato, e in ogni caso certo spinto dalle più sante intenzioni, pecchi contro la Verità (oltre che contro la Carità, non preservando i fedeli dallo scandalo di dubbie dottrine, o almeno della confusione, dell’incertezza, della divisione intra moenia), come nelle parole viste, ci si può anche chiedere quale possa essere il modo più caritatevole, prudente e lungimirante per sollevare il problema, per adoperarsi cioè a realizzare con saggezza ciò che per san Tommaso è una necessaria e santa «correzione fraterna» (S. Th., II-II, 33, 4, e 7 ad 5): la correzione di un Superiore da parte di un inferiore. Nessuno pensa che le intenzioni pastorali di quei Superiori che ai loro occhi possono parere anche troppo avventati non possano essere intenzioni più che lodevoli: è più che evidente a tutti non solo la grande devozione che ha percorso il cuore di tutti i Papi che Dio ha permesso salissero al Soglio di Pietro in questi ultimi cinquant’anni, ma anche la viva bontà degli intenti che disegnarono cotidie i loro atti di governo, finalizzati sempre a dar vita alla Chiesa, a germinare in essa nuove fioriture, a vedere in essa «una nuova primavera», come molto sperava Papa Montini. Ma le vie percorse, le dottrine enunciate, gli strumenti utilizzati, paiono ad alcuni essere oggettivamente intaccati da quella che monsignor Antonio Livi, in Vera e falsa teologia, definisce “ideologia religiosa”, e che, per darle un nome chiaro, dovrebbe esser chiamata precisamente modernismo».
Lei sostiene che Papa Francesco sta costruendo una Chiesa tutta a misura del mondo? Può fare qualche esempio?
«C’è chi ritiene irriverente, avventato e temerario che un cattolico possa scrivere un libro come Street Theology, nel quale, illustrando il percorso del cinquantennio di magistero trascorso dal Vaticano II a oggi, quello dell’ultimo Papa è accostato metaforicamente, come da titolo, all’arte di strada, alla Street Art, ma la domanda da farsi è: è il Papa o è l’uomo (è Pietro o è Simone) colui che, potendolo, non utilizza il plurale maiestatico papale “noi”, che sottende le due persone: ‘Cristo e il suo Vicario’, dunque specialissimo plurale il cui uso si rivelerebbe molto utile a garantirsi che i concetti teologici espressi sono in linea con il magistero pregresso ordinario e straordinario e che viceversa perentoriamente gli precluderebbe sul nascere ogni via di discontinuità? Giacché, se è vero che lo Spirito Santo assiste particolarmente e sempre l’uomo salito al Trono più alto, è pur vero che questi può usare della propria volontà, rigettando le intuizioni e i consigli suggeriti dalla grazia, in tal modo deviandosi dalla Veritas come alcuni malauguratamente fecero dalla Caritas. Come la Street Art, anche l’attuale Street Theology a molti parrebbe tutta a misura del mondo: stesso linguaggio provocatorio (a partire dal «Buonasera» del 19 marzo 2013); si direbbe stesso istrionismo underground, approssimativo, se non persino, per alcuni, erroneo in fide e fuorviante («Chi sono io per giudicare?», «Dio non è cattolico», «Il proselitismo è una solenne sciocchezza», «Gesù fa un po’ lo scemo», «Siamo tutti figli di Dio», «Una grande maggioranza dei nostri matrimoni sacramentali sono nulli», eccetera), tanto che per alcune espressioni la Sala Stampa vaticana è dovuta correre ai ripari, come i pulitori di certi graffiti; stesso abuso di luoghi e di spazi espressivi sempre più informali (interviste, libri, conferenze stampa ad alta quota, videomessaggi…) per diffondere concetti e dottrine innovative, “fuorilegge”, oltre poi a relegare in note a piè pagina i concetti più spinti (vedi Amoris Lætitia, nota 351) o a far illuminare di aironi, scimmiette, leoni e rettili la cupola di San Pietro per illustrare un’enciclica come la Laudato sì’, tanto disassata rispetto al comune sentire che anche cattolici provati come Antonio Socci la stigmatizzano piuttosto come un testo «sulla raccolta differenziata». Una conformazione così destrutturata del linguaggio papale, che ricorda più i meandri dei vicoli del vecchio Borgo Pio, dove il pellegrino si poteva perdere dieci volte prima di estasiarsi davanti a San Pietro, più che la spadata di via della Conciliazione che lo spalanca da lontano, è tale che rischia di spostare la Chiesa dalla sua fondazione sul Verbo a una fondazione tutta soggettivista: Bene e Male paiono sempre più annientati nella coscienza personale, sicché, per fare un esempio, l’indissolubilità del matrimonio non sarebbe più una realtà nata dalla legge naturale e confermata dal Vangelo, ma solo «un punto d’arrivo» (Avvenire, 9-4-16), un ideale, un bel sogno, e chi ci arriva ci arriva. Si spera che i Pastori di un gregge allo sbando, sanguinante, tramortito, e, a parere degli analisti, in tutto l’Occidente quasi morente, sia per i numeri sempre più ridotti, sia per la qualità sempre più insipida della fede, sappiano dire se tutto ciò sia in linea con la forma dogmatica della Chiesa, ossia col Verbo suo Sposo e sua Anima, e trovino presto, in eventuali e molto attese loro risposte, la più completa concordia e specialmente la più evidente e garantita aderenza al santo magistero di sempre».
Si parla tanto di crisi antropologico-religiosa all’interno di diversi ambiti della Chiesa Cattolica. Secondo lei, quali sono i fattori principali di questa decadenza e in quali ambienti?
«Noi dimentichiamo troppo spesso che ciò che succede nel mondo è dovuto alla forte, incessante e specialmente amorevolissima presenza di Dio, suo creatore, sopra di esso: il mondo ha dimenticato Dio, e non solo per l’ateismo dilagato, ma, prima ancora, per una Chiesa rattrappita. Senza entrare nel merito dell’estrema articolazione in cui un organismo come è la Chiesa, universale ma anche personale, spirituale ma anche materiale, questo rattrappimento va ascritto a fattori ideologici, come li chiamerebbe Livi, per i quali i più alti Pastori potrebbero aver optato per strumenti verosimilmente buoni in sé, come certo buona è la misericordia, ma non se disgiunti da valori che, come la giustizia, la legge, i precetti, in realtà ne costituiscono l’imprescindibile origine e persino l’unico terreno adatto e irrinunciabile a un loro sano sviluppo. E qui entra in campo il problema ‘Dio’ che dicevo. Perché tutto questo richiama una concezione di Dio Trinità che Romano Amerio, uno dei filosofi cattolici più eminenti che la Chiesa poté annoverare tra le sue fila nel secolo scorso, fu costretto a riscontrare – di ciò preoccupatissimo – per nulla ortodossa, ma frutto di quella che, nel suo Iota unum, definì «dislocazione della divina Monotriade»: sì, anche nella Chiesa, e forse persino prima che nel mondo, certo non volendo, e certo anche in non piena coscienza della cosa o almeno di tutte le sue conseguenze e dei pericoli cui avrebbe esposto la fede, potrebbe essere stato operato un sovvertimento dei valori fondanti, rappresentati dalle due Persone della ss. Trinità: il Logos e l’Amore. Scambiare di posto i due insiemi concettuali rappresentati da queste due Persone della ss. Trinità, ossia mettere prima ciò che va dopo e dopo ciò che va prima – per esempio la verità, la conoscenza, la legge, la giustizia, il dogma, dopo la carità, la volontà, la libertà, la misericordia, la pastorale – dà luogo alla crisi più grave che una società possa darsi, tanto più se la società è la Chiesa, perché la verità può governare la carità, ma la carità non può nulla sulla verità: la verità infatti distingue ciò che è carità e ciò che no, ma la carità non può dir niente della verità. Lo stesso vale per tutte le altre qualità. Infatti, come sovvertire il detto di Gesù: «Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,6)? Fame e sete di misericordia le hanno tutti, e non sempre per la purezza che dovrebbe distinguere la loro fame o sete, ma semplicemente per la miserabile condizione in cui tutti si trovano. Fame e sete di giustizia, invece, le hanno solo i giusti, coloro che ignazianamente si peritano di discernere il bene dal male, e ciò fanno per convogliare dove è giusto la loro misericordia. Dunque la giustizia è da più e da prima della misericordia, ne è l’altissima misura, e solo chi, come sant’Ignazio di Loyola, si premunisce di giustizia, saprà poi come e quanto riempire di misericordia i bisognosi di misericordia. Tale la meraviglia della giustizia. Questa della dislocazione Monotriadica è certo l’intuizione più meritevole di Amerio. Non ascoltato, anzi messo ai margini della e dalla cultura cattolica, ne ho raccolto il testimone, illustrando in tutti i miei libri tale cataclismatico, pericoloso sovvertimento, la cui gravità è data dal depauperamento di amore che ne segue, in tutti i suoi aspetti: dottrinali, spirituali, culturali, artistici, sociali, liturgici, morali eccetera. Ma appunto: Dio non sta a guardare indifferente, e forse – parlo anche della Chiesa e dei suoi Pastori – sarebbe bene aspettarsi dalla sua bontà una qualche paterna reazione, naturalmente infinitamente amorevole, provvidenziale e misericordiosa, ma di certo anche di natura giustiziale e correttiva: che si erri contro la Caritas o la Veritas, il Signore corregge l’errante perché ne sappia ricavare una maggiore sapienza del cuore, una più profonda consapevolezza, e specialmente un ritorno all’aurea e pura via di salvezza».
Nel suo recente STREET THEOLOGY parla di scristianizzazione e grande fuga dalla realtà della Chiesa post-moderna. Quali sono i dati e cosa intende per chiesa post-moderna?
«Non sono probabilmente né il primo né l’unico a preoccuparsi della scristianizzazione galoppante della nostra civiltà. Però parrebbe sia il solo a individuarne le cause nel soggetto che meno ci si aspetta. Dunque potrei sbagliarmi. D’altronde, se non si applicano le categorie metafisiche quali i concetti di forma e di atto primo, di cui si avvale la materia di cui sono conoscitore – la gnoseologia che per convenzione chiamiamo ‘estetica’ –, non è facile individuare gli elementi differenzianti e quelli invece similari che spostano la Chiesa dal suo asse santificatorio e vivificante – o invece ve lo mantengono –. Come sappiamo, l’asse della Chiesa, naturalmente, non è il Papa, ma Cristo, è il Dogma nella sua vitalità, è la Parola divina nella sua dimensione non solo logica, ma anche viva e incarnata, ma non mai però come la concepì don Giussani – anch’egli sempre però con le più lodevoli intenzioni –, tramutandola in “incontro”, vera e propria mutazione, questa, su cui mi soffermo in specie in La Chiesa ribaltata, dove cerco di mettere il più in luce possibile l’opposizione tra “la teologia della Parola” insegnata dal Cristo e cui rimase fedele la Chiesa per duemila anni e la “teologia dell’Incontro”, o “della Persona”, insegnata prima in CL, poi in tutta la Chiesa, vedi l’enciclica Lumen Fidei: lì, a mio avviso, si concretizza quella «dislocazione della divina Monotriade» di cui si diceva e lì si origina il soggettivismo che pare percorrere il magistero odierno e che dà luogo alla Chiesa post moderna, una Chiesa disallineata dai suoi fondamenti, dalla sua responsabilità di garantire i fedeli della sempre perfetta e continua adesione dei propri insegnamenti alla Verità, e quindi, di fatto, dalla realtà. Posso sbagliarmi, ma nessuno, almeno finora, ha ritenuto necessario impugnare, per la santa fede, gli argomenti che propongo in quelle pagine. Con ciò non voglio però dire altro che, se mi sbaglio, sarei il primo a felicitarmi nel riconoscere la piena salute della Chiesa, la sua siderale distanza dal modernismo, la sua persistente e comprovata anche attuale purezza dottrinale. Parlavo di «fuga dalla realtà»? Mi sbagliavo: la Chiesa non ha mai goduto tanta salute come in questi cinquant’anni post conciliari. Tutti noi infatti – criticoni o criticati che siamo – in realtà non abbiamo a cuore altro che il bene vero e la vita della Chiesa».
Cosa intende con curare “con i sassi e con le pietre” la Chiesa per farla “rifiorire”?
«Quella cui si riferisce è un’espressione che utilizzo in La Chiesa ribaltata (p. 292) «Se il Papa curerà la Chiesa “con pietre e sassi”, ossia cingendola di alti ripari dalle bufere e dai lupi e fortificando il terreno franoso e fangoso, … essa rifiorirà e darà poi i più rigogliosi frutti, i più succosi grappoli, le uve più pregiate, perché questo dev’essere chiaro a tutti: che la misericordia e la tenerezza del Signore, il suo amore forte per noi, possono dispiegarsi solo al riparo della protezione dei più solidi muri di recinzione della Sua vigna e del Suo frutteto… Al dunque: se la Chiesa (il Papa) accontenterà il mondo, Dio la castigherà dimezzando la sua progenie in tutti i modi. Ma se la Chiesa (il Papa) accontenterà Dio, Dio la premierà moltiplicando la sua progenie a dismisura». La misericordia di Dio fiorisce solo all’ombra della giustizia, l’amore per Lui è rigoglioso solo nell’osservanza dei suoi comandamenti, come cantano i sempre attuali leggiadrissimi Salmi: nel 118, p. es., il più lungo del Salterio, la gioia che circonda i mille riferimenti alla legge, ai comandamenti, alla giustizia, ai precetti, dovrebbe far riflettere: perché la Chiesa si preoccupa di farlo cantare ai propri sacerdoti ogni giorno, nella Liturgia delle Ore, distribuendolo su tutto il corso dell’anno? Non è che per caso di questa gioia nessuno se ne accorge più per via di quella tal «dislocazione» che si diceva? E in Street Theology è adombrata la domanda: non sarebbe stato ben più intriso di vera Misericordia un Giubileo indetto sotto il segno della Giustizia, prostrandosi così alla somma Misericordia di Cristo giusto Giudice (v. 2 Ti 4,8) e correggendo finalmente quello che ad alcuni parrebbe grave errore metodologico, se non sostanziale – siamo sempre alla ameriana «dislocazione» –: portare sul proscenio la Misericordia di Dio, “dimenticandone” l’origine, la sua Giustizia?».
Quali sono i suoi “stupori” di fronte alla realtà cattolica italiana?
«Il mio grande stupore, davanti alla situazione che ho illustrato a riguardo della Chiesa e del mondo, è che negli Anni Cinquanta, in Italia, il 99% dei cattolici, dal Papa all’ultimo dei fedeli, pensavano la religione come l’ho esposta ora qui, e ora invece questo 99%, sempre dal Papa all’ultimo dei fedeli, pensa la religione nella prospettiva ribaltata, ossia appunto quella data dalla « dislocazione della divina Monotriade». Ne deriva un secondo stupore: detto questo, come mai nessuno, ma proprio nessuno di quei miei fratelli in Cristo che pur avrebbero abbracciato la prospettiva che enfatizza malamente la misericordia, quindi il cosiddetto dialogo, non si è reso mai, ma proprio mai disponibile a un confronto, a un convegno sul tema, a una discussione della cosa? Il fatto è che, queste le mie conclusioni, ci sia o non ci sia, un giorno, un qualche incontro tra neomodernisti e tradizionisti – sereno, rigoroso, compiuto nel segno di un vicendevole riconoscimento di ideologica sincerità –, la Chiesa comunque si riprenderà, abbandonerà l’errore modernista, rimetterà il Logos sul trono che Gli spetta, tornerà a vedere le cose sub specie æternitatis e non in prospettive sempre in varia misura colluse in qualche modo col mondo, abbandonerà la Street Theology e ogni altra strada che non sia quella del Verbum, del Dogma, dell’Annuncio, della «legge dello Spirito che dà vita» (Rm 8,2), in quel santo e assolutamente non ribaltabile ordine così luminosamente segnalato dal grande sant’Ignazio d’Antiochia: “la fede [la verità, la legge, la giustizia, la verità, i precetti] è il principio; l’amore [la carità, la libertà, la volontà, la carità, la misericordia] è il fine”».
Matteo Orlando
Segnalo questo interessantissimo articolo che nel 2006 uscì su “Chiesa.Espresso” di Magister. Già allora ivi si parlava di Romano Amerio e di un saggio scritto sul grande filosofo luganese da Enrico Radaelli (“Romano Amerio. Della verità e dell’amore”). Di grande interesse il commento scritto da Don Divo Barsotti: “Amerio dice in sostanza che i più gravi mali presenti oggi nel pensiero occidentale, ivi compreso quello cattolico, sono dovuti principalmente ad un generale disordine mentale per cui viene messa la “caritas” avanti alla “veritas”, senza pensare che questo disordine mette sottosopra anche la giusta concezione che noi dovremmo avere della Santissima Trinità. La cristianità, prima che nel suo seno si affermasse il pensiero di Cartesio, aveva sempre proceduto santamente facendo precedere la “veritas” alla “caritas”, così come sappiamo che dalla bocca divina del Cristo spira il soffio dello Spirito Santo, e non viceversa…..Io vedo il progresso della Chiesa a partire da qui, dal ritorno della santa Verità alla base di ogni atto. La pace promessa da Cristo, la libertà, l’amore sono per ogni uomo il fine da raggiungere, ma bisogna giungervi solo dopo avere costruito il fondamento della verità e le colonne della fede. Dunque – come dice Amerio – partire da Cristo, dalla sovrannaturale verità che Lui solo insegna, per avere da Lui il dono dello Spirito Santo con cui sempre Lui, il Signore, ci dà vita e forza, e salire a porre infine l’architrave della “caritas”. Romano Amerio era un laico, un laico che ha conosciuto il Signore. Egli ha conosciuto il Credo evangelico e ne è divenuto limpido testimone. Ho sempre avuto l’impressione – pur non avendolo mai conosciuto di persona – di avere visto in lui un vero cristiano, che non ha mai avuto paura di affrontare i temi più impegnativi della Rivelazione. Quello che meraviglia – ed è la sua vera grandezza – è che pur essendo un laico egli è un vero testimone. Non è un teologo, non è un uomo di religione, ma uno che ha avuto da Dio il carisma di vedere quello che è implicito nell’insegnamento cristiano. Egli lo sente, ed accetta questo suo ruolo. Fa quanto il Signore gli ispira. Tutta la cristianità ha motivo di ringraziare Dio per Romano Amerio, che in questi tempi difficili ha parlato così chiaramente dei fondamenti della Rivelazione. Mi ha sempre meravigliato la conoscenza che Amerio ha del carisma che Dio gli ha dato. Per questo carisma, e per il dono che egli umilmente ne fa, Amerio rimane nella Chiesa una figura di primo piano”. http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/45538
Non credo che Bergoglio sia “il dolce Cristo in terra”, secondo la definizione di Santa Caterina da Siena, perché la stessa Santa riporta le seguenti parole di Nostro Signore Gesù Cristo — che sono nettamente in contrasto con quelle di Bergoglio a proposito dei gay: “… Chi sono io per giudicare? …” — Nel suo Dialogo della Divina Provvidenza, la Santa riferisce gli insegnamenti ricevuti da Gesù stesso, che condanna in modo veemente il vizio contro natura, che fa schifo pure ai demoni (ma non a Bergoglio):
“Non solo essi hanno quell’immondezza e fragilità, alla quale siete inclinati per la vostra fragile natura (benché la ragione, quando lo vuole il libero arbitrio, faccia star quieta questa ribellione), ma quei miseri non raffrenano quella fragilità: anzi fanno peggio, commettendo il maledetto peccato contro natura. Quali ciechi e stolti, essendo offuscato il lume del loro intelletto, non conoscono il fetore e la miseria in cui sono; poiché non solo essa fa schifo a Me (Gesù Cristo), che sono somma ed eterna purità (a cui è tanto abominevole, che per questo solo peccato cinque città sprofondarono per mio divino giudizio, non volendo più oltre sopportarle la mia giustizia), ma dispiace anche ai demoni, che di quei miseri si sono fatti signori. Non è che ai demoni dispiaccia il male, quasi che a loro piaccia un qualche bene, ma perché la loro natura è angelica, e perciò schiva di vedere o di stare a veder commettere quell’enorme peccato”.
Sia lodato Gesù Cristo!