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Sono passati 420 anni − era il 25 o 27 Settembre 1599 a Bissone, un piccolo villaggio sulle sponde del lago di Lugano − dalla nascita del grande innovatore dell’architettura barocca: Francesco Castelli, più noto con lo pseudonimo di Borromini.

Questo autore di sinuose meraviglie è insigne non solo in architettura, ma pure e forse prima ancora, sulla scia di San Carlo Borromeo e, successivamente, del cugino, il Cardinale Federigo Borromeo a Milano e di San Filippo Neri a Roma, in quella «riforma nel capo e nelle membra» che, già discussa in passato, è voluta dal Concilio di Trento. L’opera (e forse il soprannome) del nostro architetto si pone lungo il percorso della figura più eminente della Riforma cattolica: San Carlo Borromeo. Colui che, secondo la parola di San Pio X, è modello del gregge e dei pastori nei tempi moderni, propugnatore e consigliere indefesso della verace riforma cattolica contro quei novatori recenti, il cui intento non era la reintegrazione, ma piuttosto la deformazione e distruzione della fede e dei costumi: «qui gregis ac pastorum huius ætatis exstitit forma, sacræque disciplinæ in melius corrigendæ impiger fuit propugnator et auctor adversus novos homines, quibus, non fidei morumque restitutio proposita erat, sed potius deformatio atque restinctio» (Pius X, Editæ sæpe; Acta Apostolicæ Sedis, 1910, n. 9, p. 360).

Vogliamo richiamare il ricordo di Borromini tramite la musica? Ce ne offre l’occasione Sir Peter Maxwell Davies (1934-2016), compositore, direttore d’orchestra e insegnante inglese divenuto uno dei più influenti compositori britannici del XX secolo per la sua musica fortemente innovativa. «Adoro Borromini,» racconta Maxwell Davies,«amo le sue architetture fin da quando ero studente qui a Roma nel 1957,le illusioni ottiche degli spazi, il gioco di prospettive che riesce a creare con le sue opere».

La sua Sinfonia n. 10, per baritono coro e orchestra, sottotitolata «Alla ricerca di Borromini», del 2013, ci fa conoscere meglio l’architetto ticinese, oggi nuovamente apprezzato, ma aspramente condannato dalla critica neoclassica per la sua «stravaganza» e per il predominio della fantasia sulla ragione. La composizione è ripartita in quattro parti: Adagio, Allegro, Presto, Adagio.

Nella prima parte, tutta strumentale, il compositore britannico, usando soprattutto fiati e percussioni, vuole, secondo le sue parole,«realizzare attraverso i suoni le architetture di una chiesa borrominiana» (T. Service, Intervista a Peter Maxwell Davies, Londra 2014).

La seconda parte si apre con il coro che, impersonando i persecutori del Ticinese, canta il seguente sonetto di anonimo del XVII secolo (scritto forse dall’acerrimo rivale Gian Lorenzo Bernini, l’altro grande esponente del Barocco?):

Al Borromeino, Sonetto:

Piangete Tetti, e sospirate Mura

De le sorgenti al ciel moli Latine

Gli oltraggi, che vi fa (ne so a qual fine)

Un Architetto senza Architettura

Ei, che siegue i dettati di Natura

Solita far dentro le balze alpine

Stanze di Topi, e sotterranee mine,

Gli precetti de l’Arte poco cura.

Anzi, ne pur in lui Natura ha parte,

Perch’a l’oprare ogn’hor dimostra al vivo

C’ha stil contrario a la Natura, e a l’Arte.

In far cose stroppiate è molt’attivo,

Et in vantarsi non la cede a Marte;

Ma in sostanza il Coglion non sa s’è vivo

Questi di cui vi scrivo,

Si fa chiamar il Gran Borromeino,

Eccellente Architetto e Pellegrino.

Si fa uguale al Bernino,

Ma se la mano si metesse al petto

Farebbe il Manual, non l’Architetto.

A tale terribile offesa della sua opera risponde lo stesso Borromini, interpretato dal baritono solista, quasi a difesa di sé stesso, con le parole tratte dall’Opus Architectonicum, che descrivono con particolare enfasi la sistemazione pratica di cantori e musici all’interno dell’Oratorio dei Filippini in Roma.

«La terza parte della Sinfonia è di nuovo puramente orchestrale e descrive lo stato d’animo di profonda disperazione di Borromini alla fine della sua vita» (T. Service, ibidem).

Nella quarta parte il coro anticipa il suicidio del grande architetto cantando il sonetto A se stesso di Giacomo Leopardi, che inizia con «Or poserai per sempre, stanco mio cor»: un testo lontano da Borromini nel tempo (essendo stato scritto nel 1833), ma vicino a lui nella drammaticità delle sue ultime ore di vita. Segue il testamento, scritto dopo il tentato suicidio: il baritono canta un testo, tratto da documenti autentici, su una musica emozionante, «ma a questo punto interviene il coro, interrompendo il dramma, cantando i nomi delle sue opere architettoniche, senza accompagnamento strumentale, come una sorta di litania» (T. Service, ibidem).

Infatti, il coro, interrompendo quattro volte il baritono, dimentica le accuse precedenti ed elenca tutte le opere romane di Borromini: San Giovanni dei Fiorentini, il restauro di San Giovanni in Laterano, il Collegio di Propaganda Fide, Sant’Agnese in Agone, Santa Maria dei sette dolori, San Giovanni in Oleo,Palazzo Falconieri, Sant’Ivo alla Sapienza, l’oratorio di San Filippo Neri e San Carlino alle Quattro Fontane.

E il baritono conclude il tutto menzionando Santa Cecilia, alla quale dedica «il luogo della musica».

Davvero colui che volle rendere visibile la fede attraverso l’architettura «condusse vita solitaria e ansiosa, che si concluse con il suicidio» (Enciclopedia Treccani)? Da mezzo secolo qualcuno non riconosce come vera tale scelta conclusiva, gravemente cattiva, del Ticinese che si riflette sull’intera sua esistenza. È consolante sapere che il grande architetto, come riferisce Francesco Scoppola, «non morì affatto suicida, come troppo spesso si ripete, ma perdonando e salvando dalla pena capitale colui che, incaricato di accudirlo, lo aveva invece accoltellato nel corso di una lite» (L’Osservatore Romano, 10 Gennaio 2018). In seguito al quale fatto, riavutosi, poté ancora completare il proprio testamento di cui sopra, ricevere in tempo opportuno i sacramenti che preparano all’incontro con il Dio vivente e morire il 3 Agosto del 1667.

Massimo Scapin

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