Il libro “Julius Evola: da Wagner al Jazz” a cura di Piero Chiappano, edito da Jouvence, raccoglie gli scritti di argomento musicale pubblicati tra il 1936 e il 1971 dal filosofo, pittore, poeta, scrittore ed esoterista romano Julius Evola (1898-1974). A curarlo è Piero Chiappano, musicista, scrittore e formatore che, oltre ad avere il merito di raccogliere in unico volume 14 articoli e saggi sparsi su vari giornali e riviste – alcune quasi introvabili – come Roma, Corriere Padano, Il Regime Fascista, Il Popolo Italiano e Rivolta Ideale, riproduce in appendice un capitolo di Cavalcare la tigre (1961), intitolato Musica moderna e Jazz (pp. 169-181), fondamentale per conoscere il pensiero in materia del filosofo tradizionalista romano.
L’esposizione in ordine cronologico e il relativo apparato critico permettono di conoscere le riflessioni musicologiche e quelle correlate di costume di Evola, avendo come sfondo gli stravolgimenti storici, politici e di pensiero del primo Novecento. I fenomeni e le teorie musicali sono sempre analizzati in rapporto al clima culturale di cui sono espressione e l’autore non risparmia mai il suo punto di vista agendo con spirito costruttivo anche quando la critica si fa serrata. La mitologia wagneriana viene demistificata in quanto si nutre di fonti “spurie” mentre la fase aurorale del jazz viene esaltata come contributo positivo alla dissoluzione della musica ottocentesca sentimental-romantica. I ritmi dell’Europa centrale vengono contrapposti al dilagare dei balli sudamericani mentre una critica impietosa viene svolta ai danni della produzione canzonettistica di massa, che a parere di Evola annega nel luogo comune e nell’incultura. Testi specialistici si alternano a pezzi di costume e proprio in ciò consiste la gradevolezza della lettura, perché si apprezza come il filosofo romano si sappia confrontare col quotidiano ben al di là delle posizioni intellettualistiche. Il principale merito di Evola è quello di anticipare e descrivere perfettamente come dal dopoguerra in poi i paesi europei e soprattutto l’Italia si siano fatti colonizzare e travolgere da mode e arti d’oltreoceano, rinunciando in pochi anni alle loro peculiarità. Da questo punto di vista ci invita a riflettere su quanto sia prezioso e delicato compito difendere ciò che è nostro. Già nel 1952 (e figuriamoci oggi!) denuncia su La Rivolta Ideale come La stupidaggine trionfa alla Rai (pp. 109-112), con l’incipiente invasività della pubblicità (e quindi del denaro) nella televisione pubblica e, quindi, nell’inizialmente onnicomprensivo “sistema dei media”.
Nella sua ampia Prefazione (pp. 7-38) il filosofo e musicista jazz Massimo Donà (è trombettista che spazia dal rock fino all’etno-music oltre che titolare di una cattedra in Filosofia teoretica al San Raffaele di Milano) sottolinea come, a differenza di altri esponenti del regime fascista, per Evola il jazz irrompeva nel panorama occidentale in una congiuntura perfetta della storia, realizzando «l’irruzione del primordiale nel mondo moderno». Il prof. Donà, che a partire dalla fine degli anni ’80 ha collaborato con Massimo Cacciari alla cattedra di Estetica dello IUAV di Venezia, opera nel suo saggio un’importante rivalutazione di Evola filosofo della musica e interprete del fenomeno jazz in polemica con il filosofo “progressista” Theodor Adorno (1903-1969), intento a costringere tutte le espressioni musicali novecentesche negli omologanti prodotti dell’“industria culturale”.
Il Barone romano si rivela invece ben più attento esegeta, ravvisando nel jazz i motivi della definitiva messa al bando del sentimentalismo borghese ottocentesco, incarnato dalla forma “tragico-patetica” di un Beethoven o da quella “eroica” dello stesso Wagner. Senonché, l’ambiguità di fondo che contraddistingue il jazz consiste nella sua collocazione storica, nel suo porsi al crinale di un’epoca in declino, quella borghese per l’appunto, e alle soglie di un possibile nuovo inizio (è appena il caso di ricordare che la primissima pubblicazione di Filosofia dello “jazz” risale al 1934, stesso anno di pubblicazione della monumentale Rivolta contro il mondo moderno, ciò che suggerisce una collocazione della stessa riflessione “musicale” evoliana nella indagine di più ampio respiro intorno alla filosofia della storia e alla “morfologia delle civiltà”). È lo stesso Evola a segnalare tale ambiguità, chiedendosi se l’opera dissacratoria e demistificatrice del jazz rappresenti un «segno di crepuscolo o segno di superamento?» (p. 71). Domanda destinata a rimanere inevasa o, meglio, connessa a «quel che l’uomo di domani saprà chiedere a sé stesso» (p. 159).
Giuseppe Brienza