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Anticipiamo la Prefazione scritta dal giornalista e storico Luciano Garibaldi al libro “Cattolici e anni di piombo” (Edizioni Solfanelli, Chieti 2017, pp. 5-12), di Giuseppe Brienza, dedicato a tutti quegli Italiani che, durante la stagione assassina del terrorismo italiano, rimasero “con la schiena dritta”

 Scorrendo le belle e avvincenti pagine del libro di Giuseppe Brienza “Cattolici e anni di piombo” (Edizioni Solfanelli, Chieti 2017, pp. 112), rileggo i pensieri e le azioni di catto-italiani indimenticabili come Primo Siena, Fausto Belfiori, Bartolo Ciccardini, il mio grande amico Gaetano Rasi, l’indimenticabile don Gianni Baget Bozzo e soprattutto il cardinale Giuseppe Siri. E mi sovviene di colpo un episodio chiave della mia giovinezza che ebbe rilevanza nazionale anche se fu presto dimenticato per non urtare la suscettibilità sinistroide. Accadde nell’ottobre 1953, dopo le sanguinose sparatorie della polizia inglese contro i cortei degli studenti di Trieste che invocavano il ritorno all’Italia. L’uccisione di quei ragazzi, abbattuti con spietata ferocia da chi, fino a quel momento, aveva favorito soltanto gli interessi dei banditi di Tito, sollevò un’ondata generale di sdegno tra i giovani di tutta Italia, ma a Genova accadde qualcosa di assolutamente inatteso, data la fama di «città rossa» che la circondava. Fummo in molti, a mobilitarci. In testa, il «D’Oria», ma anche il «Colombo», il «Mazzini» e parecchi istituti scolastici gestiti da religiosi. Nel giro di poche settimane, tutto era pronto per la proclamazione di uno sciopero con raduno in piazza De Ferrari. I più attivi erano stati i dirigenti della «Giovane Italia» del MSI, il cui punto di riferimento era Giano Accame, ma un ruolo determinante, soprattutto tra le classi del «D’Oria», lo ebbe l’Unione Studenti Medi «Savoia», fondata da me e da Domenico Fisichella, che ne era il segretario.

Da piazza De Ferrari, guidato dai megafoni che ci eravamo procurati, un corteo imponente, forte di almeno cinquemila giovani, raggiunse la vicina piazza Dante, dove ebbe inizio la manifestazione, con urla e slogan, sotto le finestre del Consolato generale britannico. Poi ci incanalammo per l’ultimo tratto di via Fieschi e svoltammo in via XX Settembre, che prendemmo a scendere in direzione levante. Le foto e un titolo a nove colonne in prima pagina sul «Secolo XIX», che ricordo ancora, documentavano la consistenza e la forza di quella manifestazione.

Gli slogan: «Trieste all’Italia!», «Tito e i suoi banditi fuori dall’Italia!». Il nostro obiettivo – – il grosso del corteo non lo sapeva, ma ben presto lo comprese – era la federazione genovese del PCI di piazza Tommaseo, in seguito sede del comando della Polizia Stradale. L’edificio, in puro stile fascista (era stato realizzato negli anni Trenta ed era stato la sede del PNF), fu circondato da centinaia di studenti ed ebbero subito inizio le intimazioni con i megafoni: «Via gli stracci rossi e innalzate il tricolore!». Dalle finestre del palazzo, gesta sconce e bottiglie lanciate sui dimostranti. Non fu che l’inizio. Dalla piazza partirono sassate e oggetti di ogni tipo, con più di un tentativo di assalto. A questo punto intervenne decisa la «Celere», dando inizio a una serie di caroselli che finirono per riportare l’ordine. Ma lo scopo era stato raggiunto: il covo dei comunisti, dei complici di Tito, era stato violato. A Genova. La città proibita.

Fu in quell’occasione che la stampa si sinistra coniò il temine «monarchico-fascisti», sulla falsariga di quei «clerico-fascisti» che, nel ’48, avevano determinato la sconfitta elettorale socialcomunista.

Mi riferisco alla storica scomunica decretata dalla Chiesa di Pio XII verso quanti avessero votato comunista. Se da un punto di vista rigorosamente storico si può affermare, senza ombra di dubbio, che la presa del potere, in Italia, da parte degli uomini di Stalin era stata evitata proprio grazie a quel provvedimento, non c’è dubbio che il suo ricordo e la sua presenza, soprattutto nel cuore e nel pensiero delle donne, specialmente delle mamme, contribuì non poco a porre un freno agli estremismi della contestazione post-sessantottina.

Vale dunque la pena ricordare quel decreto del 1° luglio 1949 emesso dalla Congregazione del Sant’Uffizio, che rappresentò, per la strategia di conquista del potere studiata a Mosca e messa a punto a Botteghe Oscure, una sconfitta irreparabile e definitiva. Da cui l’odio mortale della sinistra -che dura tutt’ora – nei confronti del grande Pontefice, Pio XII, che aveva avallato il decreto.

Fu quella decisione a fare di Papa Pacelli un nemico assoluto per i comunisti e per i loro tirapiedi, e a indicarlo a scrittori, propagandisti e falsificatori della storia come l’obiettivo principale da colpire. Difatti, ben presto ebbe inizio la sarabanda, con la rappresentazione, al Freie Volksbühne di Berlino, dell’opera teatrale di Rolf Hochhuth «Il Vicario», dove la mancata presa di posizione ufficiale del Papa contro il nazismo era definita «complicità con l’Olocausto».

Alla commedia di Hochhuth fece seguito una serie di libri le cui falsità ebbi il piacere di smascherare nel mio «O la Croce o la Svastica», pubblicato dalla Lindau nel 2009.

Un ruolo fondamentale, nel diffondere – tra i cristiani che, ai seggi elettorali, votavano falce e martello – il fatale ripensamento, lo ebbero le diocesi locali, che diffusero e affissero migliaia di manifesti contenenti la sintesi del decreto. Celebre quello della Curia di Piacenza, sul quale poteva leggersi: «È peccato grave iscriversi al PC; favorirlo in qualsiasi modo, specie nel voto; leggere la stampa comunista. Quindi, non si può ricevere l’assoluzione se non si è pentiti e fermamente disposti a non commettere più gli anzidetti peccati gravi. Chi fa propaganda per il PCI è apostata della fede e scomunicato».

Furono migliaia i cristiani, specie le donne di una certa età, a farsi venire i brividi al pensiero che i loro mariti e figli potessero finire all’inferno perché leggevano «L’Unità» e votavano per Togliatti. E, alle urne, non ebbero dubbi e votarono per la Democrazia Cristiana, il “partito dei cattolici”. Negli anni che seguirono, la tensione si attenuò, finché, dopo la morte di Pio XII, tutto finì in una bolla di sapone.

Artefice, il nuovo Pontefice Giovanni XXIII, il «Papa buono», così ribattezzato da quegli organi di stampa da sempre controllati dai compagnucci della parrocchietta, che sottintendevano – ovviamente – la sua contrapposizione con l’innominato ed innominabile «Papa cattivo».

Leggo con commozione e partecipazione la ricostruzione fatta da Giuseppe Brienza delle storiche battaglie condotte sulle pagine di «Carattere», di «Europa Settanta», di «Adveniat Regnum», e il mio ricordo va alle sicuramente più modeste, ma non meno battagliere e taglienti pagine delle rivistine cui riuscimmo a dar vita in quel clima monarchico-cattolico della Genova fine anni Cinquanta. A quei fogli di battaglia dedicavamo tutta quella parte del nostro tempo che ci veniva lasciata libera da comizi, conferenze, contatti con gli amici del MSI, riunioni di piazza, sempre contestate e contrastate dai fedelissimi della falce e martello.

Luciano Garibaldi

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