Pubblichiamo la seconda parte dell’intervista esclusiva de La Fede Quotidiana a don Alessandro Minutella.
Don Nicola Bux parla di Chiesa in confusione dottrinale ed anche pastorale: che cosa ne pensa?
“Conosco e apprezzo moltissimo la competenza teologica di don Bux, soprattutto a riguardo di un’attuazione equilibrata e non ideologica della riforma liturgica conciliare, anche se, a dire il vero, questa riforma, dopo le dimissioni invalide di Benedetto XVI, come dicevo, è stata del tutto presa in mano dalla falange radical progressista che ha trasformato la messa Novus Ordo in una cena luterana, dove vince chi più crea a proprio gusto e, sovente, ad altrui disgusto. Non ho qui lo spazio per addentrarmi nelle questioni delicate relative alla stagione postconciliare delle riforme. Io mi ancoro alla messa detta tradizionale. E so che anche don Bux la stima. Apprezzo soprattutto il suo contributo a riguardo della custodia e salvaguardia dei Sacramenti, a proposito del suo libro “Con i sacramenti non si scherza”. Ora anche questa denuncia, pacata e serena (non accesa nei toni come nel mio caso, ma ognuno ha il suo carisma), a riguardo del clima di confusione nella Chiesa, accredita don Bux non più soltanto come esperto di liturgia a livello mondiale, ma anche come testimone della sana dottrina cattolica, oggi a repentaglio. Gli auguro ogni bene nel Signore.
La dottrina e la verità perenni della Chiesa possono cambiare?
“La questione è più che mai decisiva, e tiene banco almeno dal tempo del primo scontro tra la Chiesa e la modernità, dopo la lunga stagione cosiddetta “tridentina”. Certo, San Pio X, una volta per tutte, ha dimostrato nella Pascendi Dominici Gregis che un confronto con la modernità non doveva coinvolgere la natura intangibile dei dogmi della fede, come invece il modernismo teologico, biblico, liturgico, dogmatico, stava già facendo. C’è certamente un progresso della fede che procede non per tagli o rotture ma per armonica maturazione. Quel che io ero quando avevo appena 5 anni, sono ancora oggi che ne ho 45. Sono cambiate molte cose, maturate, si sono sviluppate alcune potenzialità, ma a partire sempre dal medesimo soggetto che sono io. Ora, lo sviluppo del dogma – tema che tanto ha impegnato la teologia a cavallo tra la fine dell’età illuminista e gli esordi della cosiddetta teologia liberale – richiede il rispetto dell’organismo stesso dentro cui si sviluppa, in questo caso la comunità credente, che vive di un Credo e di dogmi di fede. La lettura antidogmatista dell’establishment bergogliano, la presa di distanza sospettosa verso i dogmi della fede, in vista di una non ben precisata esperienza della fede, priva di punti di riferimento, è soltanto l’esito del lungo processo dialettico tra fede e ragione, tra dogma e vita, tra il realismo metafisico (di matrice tomista) e l’esistenzialismo ateo del XIX secolo.
Per esser chiari, a riguardo per esempio di Amoris Laetitia, siamo in presenza di un documento neomodernista dove il dogma e la Tradizione vengono visti con sospetto, e si guarda ad un loro superamento per andare incontro alle esigenze del mondo contemporaneo. C’è la benedizione di un processo che ha guardato, già all’indomani del Concilio, con grande sospetto, fino al boicottaggio pieno, alle questioni relative all’escatologia, alla sacramentaria, alla dogmatica. La tanto sospirata svolta antropologica, che ha messo Dio in soffitta, finalmente si è attuata in un contromagistero, quello di Bergoglio, che apre un processo pericolosissimo, dal momento che non si è avuta, al di là della richiesta di chiarimento dei Dubia dei 4 Cardinali e di qualche altra timida reazione, una risposta corale e organizzata per frenare questo processo illegittimo di cambiamento della dottrina. Il sospetto verso i dogmi si traduce, nel linguaggio rahneriano di Bergoglio, con nuovi termini, che diventano come pilastri di un edificio non più però cattolico, ma eretico. Questi termini, tanto decantati, come discernimento delle situazioni, accompagnamento pastorale, primato dell’esistenza, in realtà nascondono il proposito di smantellare la dottrina fin qui chiara.
Per tutti vale quanto dice Eb 13,8: “Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre”. Il teologo von Balthasar denunciava, in armonia con le preoccupazioni di un giovane Ratzinger, la cosiddetta “smania del mondo” (weltelei) che aveva contaminato, come virus, la Chiesa nel post Concilio Vaticano II. Questo ottimismo verso il mondo si è potuto tradurre con la parola dialogo, dietro cui però era in agguato la visione ideologica del vero protagonista nascosto del Concilio, il gesuita tedesco Karl Rahner, fautore appunto di una nuova visione di Chiesa antidogmatica, non più moralista, aperta alle altre religioni, in dialogo amichevole con il mondo. L’immutabilità dei dogmi è ribadita da un documento importante e trascurato, Dichiarazione circa la Dottrina cattolica sulla Chiesa per difenderla da alcuni errori d’oggi (1973), in piena tempesta postconciliare, in cui si guarda con fiducia allo sviluppo e all’adattamento dei dogmi nella società contemporanea, ma si mette in guardia dal pericolo di mutarne radicalmente la natura. Il numero 5 è il più chiaro di tutti: “le formule dogmatiche del Magistero della Chiesa fin dall’inizio furono adatte a comunicare la verità rivelata, restano per sempre adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente”.
La pastorale può divergere dalla dottrina?
“Credo di aver già individuato la risposta nel contesto precedente. La frattura tra queste due componenti è figlia delle teologie della liberazione, soprattutto quelle di matrice latinoamericane, anche se in Europa ha contribuito non poco l’apporto di teologi come Metz e Moltmann, Karl Rahner e Hans Küng. L’idea che da una parte esista la vita, con tutte le sue sfumature cromatiche, vivaci e imprevedibili, e dall’altra, invece, ci sia una dottrina ammuffita e spenta, uscita dalle catacombe del pensiero preconciliare, che somiglia piuttosto a un monolite ingombrante, e che perciò non serve quindi più a nulla nella vita, è del tutto fuorviante. E vediamo bene quali danni sta producendo. Si perviene ad una morale fai-da-te, dove il criterio oggettivo e normativo, e perciò vincolante per la coscienza, cede il passo al primato della libertà individuale. La famosa espressione, in bocca a colui che dovrebbe essere garante e custode della fede, “chi sono io per giudicare!”, è la sintesi improvvida di questa frattura. Non esiste più una dottrina morale e di fede, ma ciò che la mia libertà individua come tale. L’esaltazione della coscienza personale che Bergoglio porta avanti nei dialoghi con Eugenio Scalfari risponde a questo criterio, così come pure l’idea che non esiste un Dio cattolico. A partire dall’esaltazione della libertà del soggetto, ne proviene l’etichettatura di fondamentalismo per quanti, invece, ragionevolmente, non si piegano a questa dittatura del relativismo, come l’ha definita Benedetto XVI, e che trovano nel regime oggettivo dei valori l’adeguazione migliore alla propria coscienza”.
Pensa che oggi la Chiesa parla a dovere del peccato?
“Il tema del peccato e della grazia è del tutto scomparso. Dal pudore postconciliare si è passati al pieno boicottaggio bergogliano. Il registro dominante, e forse persino ossessivo, è quello dei temi sociali, dell’ambiente, dei poveri, degli immigrati. Nel frattempo anche il tema dell’anima immortale viene soppiantato, come pure dal pudore si è passati anche al sospetto nei confronti dei temi ultimi come la Chiesa li ha sempre insegnati (morte, giudizio, paradiso, inferno). È certamente un colpo di grazia assestato dal governo di Bergoglio, ma ha radici più remote, ed esattamente riguarda la scelta di celebrare un Concilio, l’ultimo, con un registro pastorale, tutto infarcito di ottimismo surreale, dove è sembrato che si fossero per sempre sanati i contrasti e le opposizioni da parte del mondo. Surrealismo colpevole, ingenuità complice.
Ho avuto modo di vedere, in questi giorni, una replica del teologo domenicano Cavalcoli alle mie affermazioni, così ampiamente condivise dalla gente. In particolare, egli sostiene che io sbaglio quando sottolineo che il Concilio Vaticano II è stato pastorale non dogmatico, e pertanto non vincolante. Egli dice che ci sono state costituzioni che sono dogmatiche, come Lumen Gentium e Dei Verbum, e questo è vero, ma non si è voluto dare loro (e meno male!) carattere vincolante, come per esempio, è avvenuto a riguardo della consustanzialità del Figlio con il Padre al Concilio di Nicea nel 325, o alla Transustanziazione al Concilio di Trento nel XVI secolo. Qualunque credente neghi queste verità vincolanti, ancora oggi, incorre nella scomunica. Ora, quali vincoli dogmatici ha posto il Vaticano II? Nessuno. Al punto che Ratzinger poteva parlare del tentativo – che pare sia quello adoperato paradossalmente dallo stesso Cavalcoli – di fare del Concilio stesso, data l’assenza di un registro vincolante, un superdogma. In altre parole, i Concili hanno vincolato, sotto pena di scomunica, i credenti a riguardo delle dichiarazioni dottrinali emanate. Tutto questo non è accaduto, per grazia di Dio, con il Concilio Vaticano II. Che sia un Concilio pastorale non è certo don Minutella a inventarselo. Lo hanno dichiarato sia Giovanni XXIII che Paolo VI, come anche interpreti esimi del Concilio, tra cui un sempre più stupito von Balthasar, che lamentava appunto la rinuncia dei padri conciliari al registro vincolante, e un sempre più addolorato Ratzinger, che nella stagione postconciliare, vedendo i danni prodotti da un’interpretazione errata, è sembrato una vox in deserto. Dunque, quelli del Vaticano II restano orientamenti non vincoli di fede. E ciò per tutto quanto attiene alle scelte che hanno potuto spingere Paolo VI, deluso, a parlare di inverno profondo nella Chiesa, laddove si attendeva una primavera dello Spirito. Trovo significativo che il cahier de doléances di un sempre più smarrito Paolo VI (che giunge a parlare persino di fumo di satana) sia pressoché analogo a quello di mons. Lefebvre, che parlava di apostasia della fede e di smarrimento dell’identità cattolica. In tutta la Chiesa, da più di un cinquantennio, stiamo vivendo il senso del terzo segreto di Fatima. Gli orientamenti conciliari sono stati non solo improduttivi ma oggi costituiscono le fortezze da cui i progressisti e i neomodernisti lanciano le loro granate, e questo Cavalcoli lo sa bene. Orientamenti conciliari dominanti, quali il dialogo interreligioso, l’ecumenismo, la riforma liturgica, il dialogo con il mondo, non solo vanno urgentemente rivisitati, ma non vincolano in alcun modo il credente, e ciò semplicemente perché gli stessi padri conciliari hanno voluto così. Singolare che uno come Cavalcoli difenda gli orientamenti conciliari definendoli dogmatici, diventando così d’un colpo, esponente del pensiero rahneriano che, proprio in quei sibillini orientamenti, ha messo la propria firma. E così uno come Cavalcoli che si è speso per mettere in guardia da Rahner, pur di venire addosso a don Minutella, d’un tratto assume le difese di Rahner stesso. Ne ha per anni condannato le tesi, e ora invece le considera addirittura vincolanti. E Cavalcoli sa bene che dico il vero quando affermo che i pronunciamenti conciliari sono in realtà vittorie del partito rahneriano. Se gli orientamenti del Concilio, in particolare l’ingenuo dialogo col mondo (che, come diceva von Balthasar, ha scalzato via per sempre il tema della testimonianza e dell’annuncio della fede, a causa della weltelei, la smania del mondo), se, dunque, questi orientamenti sono vincolanti, allora Cavalcoli per primo deve chiedere scusa per averci imbevuto di critica antirahneriana, e deve ora, se è onesto con sé stesso, fare pubblica attestazione di fedeltà non agli orientamenti, ma ai dogmi vincolanti del Concilio rahneriano.
Credo che questo mancato vincolo dogmatico sia stato un intervento di Dio. Affinché presto giunga chi, nella gerarchia, provveda a sanare le ferite prodotte da tali orientamenti. Aveva ragione, dunque, von Balthasar: l’anomalia di un Concilio non dogmatico è risultata, alla fine, provvidenziale”.
(fine della seconda parte. Continua)
Bruno Volpe