È un triste destino quello che colpisce Carlo Alianello, scrittore dei fatti più che delle parole, vessillifero delle ragioni e delle vite dei vinti, ma oggi a torto poco noto per la sua solida fede cattolica e il desiderio di leggere gli eventi osservando anche l’altra faccia della medaglia. Atto coraggioso e polemico che isola Alianello nel panorama letterario.
L’eredità della Priora (1963) è un vero e proprio affresco storico che muove le braci di un tema tanto scottante quale può essere quello della guerra civile che, all’indomani dell’Unità nazionale, scoppia nel Meridione. Storia sanguinosa del nostro Risorgimento troppe volte dimenticata, ma non per questo meno reale.
Potenza, 1862, quella raccontata da Alianello è la storia dei briganti letta non più in termini criminologici, ma con una profonda comprensione per vinti e vincitori, ed è la storia di animi fermi e leali rimasti fedeli al Re Ferdinando, come il giovane Andrea Guarna e la Madre Priora, protagonisti del romanzo.
Se questa lettura (che coglie la passione filoborbonica del romanzo) appare corretta, risulta però allo stesso tempo parziale e non rende pienamente giustizia allo scrittore. Non è infatti nostalgia per il vecchio regno quella che pervade l’opera, ma un grande amore per l’uomo e una salda fiducia nelle sue azioni incanalate nel flusso inesorabile della storia.
È una prosa, quella di Alianello, che si muove davvero agli antipodi rispetto alla letteratura risorgimentale, navigando tra le acque turbolente della coscienza.
Il primo binomio da citare nella lettura dell’Eredità è quello di fedeltà e tradimento. Tutti i personaggi, in maniera più o meno penetrante, affrontano il dissidio che nasce nel restare fedeli a una delle due posizioni: liberale o borbonica. Andrea, ex ufficiale borbonico, è di quelli che «intendono difendere il trono e l’altare», la fedeltà in lui è talmente radicata che tale sentimento lo trascinerà, nel flusso delle vicende, ad affrontare il suo opposto, il tradimento.
Quanta angoscia e quanto timore leggiamo nelle pagine che descrivono i sentimenti di Andrea. Di fronte a tali dissidi interiori solo una parola può portare pace, quella di Cristo:
“Ama il prossimo tuo come te stesso. Qual è il tuo prossimo, Andrea? Quello che è angariato e disprezzato o quello che angaria e disprezza e non gli importa di conoscere la fame del fratello? Il trono e l’altare, disse Andrea a bassa voce e gli venne da ridere. Finché sono parole, ideologie, non sono niente. Come libertà, unità. Quanto vale un bambino ucciso e una famiglia massacrata? Hanno un prezzo? E le anime? Che sono le anime per noi? Niente. Abbiamo fatto mai il conto delle anime perdute? Hai sbagliato tutto, Andrea. Neppure tu sai dov’è il tuo Cristo”.
Anche gli eroi borbonici, verso i quali Alianello mostra più simpatia, possono quindi cadere in errore e perdere il sentimento della pietà, offuscato da parole («il trono e l’altare») che non rendono conto delle vite a loro sacrificate.
Lo scrittore accende una candela di pietà e misericordia su una guerra che lascia dietro di sé null’altro che macchie di sangue sulle bandiere delle ideologie.
Incolpato di aver preso una posizione eccessivamente a favore dei vinti, questo “peccato” di Alianello, più che come parzialità, deve essere letto come simpatia da parte dello scrittore verso coloro che la cronaca ha dimenticato − una simpatia letta nel senso etimologico del termine, col significato di patire insieme, di condividere le sofferenze (dal greco syn páthos) − oltre che il desiderio di raccontare la loro storia nonostante questa sia piccola rispetto a quella con la s maiuscola, quella che tutti conoscono, la sola forse.
È uno sguardo misericordioso quello che vaglia la coscienza di tutti i protagonisti di questa storia. Isabellina, Andrea, Juzzella e Gerardo vivono allo stesso modo, ma con un afflato diverso, un momento di transizione, passando da una logica individualista a una più aperta comprensione della guerra, dell’amore, della sofferenza visti adesso dentro un’ottica universale e cristiana. I duri eventi di cui sono protagonisti vengono riscattati dalla Provvidenza che da senso a ogni azione umana, collocata all’interno di un disegno divino.
Alianello però non verrà compreso, negli anni molti gli remeranno condannandolo a una vita da «esiliato nel seno stesso della patria sua», quella letteraria. Sono queste le parole che utilizza nella sua autobiografia, Lo scrittore o della solitudine (1970) nella quale leggiamo come Alianello senta già proprio, fin dalla giovinezza, il destino di solitudine che lo colpirà da adulto.
Oggi prendersi carico delle sorti delle opere di Alianello è un imperativo al quale bisogna rispondere con onestà intellettuale, per non permettere che la sua prosa, così viva e ricca, cada nell’oblio.
Roberta Conte