di Padre Giuseppe Agnello*
Il mese di Novembre è dedicato dalla Chiesa al ricordo costante e piú fervoroso dei fedeli defunti; e il due dello stesso mese, com’è oggi, si cèlebra ovunque (e nei cimiteri in modo speciale) “La commemorazione di tutti i fedeli defunti”. Ogni giorno la Chiesa prega, nella messa, per «tutti coloro che si sono addormentati nella speranza della risurrezione»; ogni giorno nelle preghiere personali o comunitàrie (o alla fine dell’Àngelus, o terminato il rosàrio, o nell’última invocazione delle Lodi e dei Vespri) non manca la preghiera per i defunti; tuttavia oggi e in questo mese, insistiamo di piú sull’importanza di suffragare queste ànime, perché l’iniziativa personale può progressivamente pèrdere di vista i contenuti della fede e anche il perché della preghiera dell’eterno riposo; invece l’iniziativa ecclesiale e comunitària ci istruisce bene sulle verità che riguàrdano il nostro futuro; dà al dolore il suo giusto posto nel cuore di Dio; e ci unisce insieme in quella comunione dei santi, che ieri abbiamo festeggiato con la giòia per la glòria di coloro che già sono in Paradiso e che oggi commemoriamo invece con la compassione per chi, vivo, è nel lutto; o per chi, morto, si trova in Purgatòrio.
Insomma: se facciamo da soli, la nostra fede e il nostro culto dei morti può diventare malinconia, rassegnazione, ricordo senza conforto, e vísita senza preghiera. Anche i fiori stessi che portiamo, e che sono segno di affetto e gratitúdine, senza la speranza nella vita oltre la morte, sono bellezza, profumi e colori sprecati. ¿Che se ne fa una salma di quei fiori? Quei fiori hanno senso se si crede alla vita futura che il nostro defunto ha incominciato, e se a fàrceli portare è l’amore vivo per i nostri cari. Il faidatè nel culto dei defunti, cari fratelli, porta piano piano ad alcune aberrazioni che solo la fede della Chiesa e le iniziative comunitàrie della Chiesa pòssono evitarci. Ad esèmpio, nella celebrazione comunitària, tutto è all’insegna della speranza, della vittòria di Cristo sulla morte, della consolazione, della carità dei vivi verso i defunti: il suffràgio per le loro ànime, infatti, è il màssimo grado di carità che possiamo loro esprímere. In tutto ciò, scompare la paura di morire, perché abbiamo fatto scomparire il peccato dalla nostra vita, per fare abitare in noi lo Spírito. Come diceva san Pàolo ai Romani: «tutti quelli che sono guidati dallo Spírito di Dio, questi sono figlî di Dio. E voi non avete ricevuto uno spírito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spírito che rende figlî adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spírito stesso, insieme al nostro spírito, attesta che siamo figlî di Dio. E se siamo figlî, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8, 14-17). Èssere eredi di Dio, capite bene che signífica entrare nell’eternità con Cristo e lí avere di piú di quello che un erede può sperare di avere. Chi fa da sé, in questo argomento ultramondano, però, non fa per tre, ma fa spègnere in sé la speranza. E infatti ci sono frasi che non si pòssono e non si dèvono sentire nella bocca di un cristiano, quando parla del futuro, della morte, e dei cari defunti. Vi fàccio degli esempî: « – Nessuno è mai tornato di là per dirci che cosa c’è; – Quando moriamo, finisce tutto; – È da un pezzo che màngia terra; – Quando ci méttono a fàccia all’ària. . .avremo tutto il tempo per riposarci». Ovviamente in queste frasi manca la fede nella vita eterna e nelle promesse di Gesú, ma anche il vero significato dell’ “eterno riposo”. L’uomo carnale, o materialista, o senza Dio, infatti, intende il “riposo” solo come ristoro delle stanche membra, sicché, pensando a una salma da anni immòbile, in una bara chiusa in un lòculo, potrà solo fare ironia su quel riposo o considerarlo una condanna piú che un prèmio; o trasformare il lutto in sarcasmo, ribellione o chiusura in sé stesso. L’uomo spirituale, e il cristiano che cammina con la Chiesa incontro al Signore che viene, invece sa che il riposo del credente è l’immersione nell’amore eterno di Dio; sa che «le sofferenze del tempo presente non sono paragonàbili alla glòria futura» (Rm 8, v.18); sa che la glòria futura è l’eredità stessa che Dio «ha preparato per noi fin dalla creazione del mondo» (Mt 25, v.34). Per il credente il futuro si sviluppa secondo la lògica bíblica, e guida tutta la nostra vita secondo fede, speranza e carità. Infatti il credente sa che IL FUTURO PUÒ ÈSSERE DI TRE TIPI: FUTURO STÒRICO, FUTURO RADICALE E FUTURO APOCALÍTTICO. Dico che lo sa, non perché lo ha mai sistematizzato dàndogli questi nomi, ma perché ne fa esperienza. In tutti e tre i casi vive un’attesa: nel futuro stòrico, deve aspettare la salvezza con la fede di chi sa che Dio interviene sempre in nostro aiuto, laddove siamo. Nel futuro radicale, che è quello predicato dai profeti, deve sperare nel ritorno nella pàtria celeste con la stessa certezza con cui speràvano di ritornare a Gerusalemme i deportati a Babilònia. Nel futuro apocalíttico, che è anche fuori della stòria e del tempo che conosciamo, la persona ha lasciato il suo corpo in un sepolcro; vede Dio ed è stato giudicato da Dio per le sue òpere buone o cattive; e infine aspetta la redenzione o la condanna del pròprio corpo, dopo èssersi purificato nella carità, oppure dopo èssersi dannato senza la carità. Capite allora che l’attesa del cristiano nel presente, nelle giornate, o dopo la morte è sempre collegata al futuro in una delle sue forme appena viste, che pòrtano con sé una o piú virtú teologali.
In questa attesa e in questo futuro, la parola d’órdine per non isbagliare mai è «Ricòrdati di me nella tua misericòrdia…Vedi la mia povertà e la mia fatica, e perdona tutti i miei peccati» (Sal 24 [25], vv16 e 18).
Oggi, allora, ci ricordiamo tutti del fatto che i nostri cari defunti sono stati già giudicati dal Giúdice giusto, che giudicherà un giorno anche noi, e i vivi e i morti dell’último giorno della stòria. Sono stati giudicati secondo le òpere di misericòrdia corporale e spirituale contenute nella Sacra Scrittura, ma non sappiamo se sono già in Paradiso, con quei santi festeggiati ieri. Sappiamo che sono in comunione con noi, se non sono ànime dannate. Sappiamo anche che in Paradiso non entra niente di impuro, sicché, se non sono stati perfetti nell’amore, i nostri cari defunti hanno bisogno delle nostre preghiere per entrarci. Il Vangelo di oggi ci parlava di vita eterna per i buoni e di supplízio eterno per i cattivi (Cfr Mt 25, v.46). Cosí sarà nella condizione definitiva che ci siamo meritati; ma prima di questa condizione definitiva, esiste un luogo che non è per i cattivi e non è per i buoni, ma spetta agli imperfetti nell’amore. Ai cattivi l’inferno; ai buoni il Paradiso; agli imperfetti nell’amore il Purgatòrio. Il primo e il secondo sono definitivi; il Purgatòrio è temporàneo e oggi, e per tutto questo mese, ci impegneremo a svuotarlo con le nostre preghiere e le nostre òpere di bene.
Is 25, 6a. 7-9; Dal Sal 24 [25]; Rm 8, 14-23; Mt 25, 31-46
*L’autore aderisce ad una riforma ortografica della lingua italiana