Il prossimo venerdì 10 gennaio ricorre il terzo anniversario del passaggio al cielo del sacerdote diocesano veronese di venerata memoria Don Ferdinando Rancan.
Per l’occasione alle ore 19 presso la Chiesa di Santa Eufemia a Verona (vicino al ponte Vittoria), verrà celebrata la Santa Messa dove quotidianamente don Rancan ha servito la Messa fino all’esaurimento delle sue poche forze.
Con la sua vita santa don Rancan è stato e può ancora esse di sprone per tutti, in particolare per i sacerdoti, oggi così tentati dal diavolo e messi alla prova nella loro fedeltà e perseveranza.
Se il mondo non fa altro che sbandierare miserie e modelli immorali o per lo meno mondani, don Rancan è stato un servo “buono e fedele” che a tre anni dalla morte stimola ancora a riscoprire la bellezza della Fede cattolica e l’amore del Signore Nostro Gesù Cristo, vero Dio e e vero uomo.
Don Ferdinando Rancan è stato il primo sacerdote diocesano italiano ad attingere in modo vocazionale allo spirito dell’Opus Dei divenendo, nel lontano 1954, socio aggregato della Società Sacerdotale della Santa Croce.
L’Opus Dei a Verona iniziò con analogie forti con la storia del fondatore a Madrid: nella casa di don Ferdinando, con sua madre ad accudire i ragazzi che venivano per studiare e per gli incontri di formazione e di apostolato.
Nativo di Tregnago (14 giugno 1926), don Ferdinando ricordava il suo primo incontro con il fondatore dell’Opus Dei, San Josemaría Escrivà, con queste parole: «fin dal 1953 avevano parlato al Padre di me e, com’era sua abitudine, mi mise subito nella sua orazione e nelle sue mortificazioni. Tuttavia, per diversi motivi, durante il mio soggiorno a Roma non si era mai presentata l’occasione propizia di incontrarlo personalmente. Alla fine del 1959 il Padre volle conoscermi come il suo primo figlio sacerdote aggregato della Società Sacerdotale della Santa Croce in Italia. Mi recai a Roma nel dicembre del 1959 a Villa Tevere, Sede Centrale dell’Opera, e il 10 dello stesso mese fui ricevuto dal Padre. Non è facile descrivere l’emozione che provai nel primo incontro con San Josemaría: mi sparivano dalla mente tutte le cose che pensavo di dirgli, mi veniva a mancare la parola, e se tentavo qualche espressione, mi sentivo un povero balbuziente, che annaspava tra una battuta e l’altra dal contenuto scontato se non ridicolo. Quando si aprì la porta del soggiorno non feci in tempo a salutarlo che già mi sentii avvolto nel suo abbraccio forte e vibrante di affetto: «Figlio mio!…» e poi non ricordo più niente. In effetti, anche se rimasi oltre un’ora con lui, non mi fu possibile memorizzare nulla di quello che lui andava dicendomi, così come si era cancellato completamente dentro di me quello che io pensavo di dirgli. C’era solo lui. La sua personalità colossale impediva, senza essere ingombrante, ogni altra presenza e ogni altro pensiero. Le uniche parole che mi sono rimaste – “avevo tanta voglia di vederti, anche tu sei figlio della mia orazione” – non ho potuto dimenticarle perché le vidi in relazione con la mia vocazione».
Nella sua lunga vita don Rancan ha manifestato tanti doni di Dio. Fin dall’infanzia, segnata dal dolore della scomparsa del padre in un incidente sul lavoro, e dalle malattie polmonari che non lo abbandoneranno mai lungo tutta la vita, ha maturato un’intima confidenza con Maria, madre di Dio, alla quale ha dedicato il suo ultimo libro: In quella casa c’ero anch’io (Edizioni Fede e cultura). Ritornato a Verona dopo la laurea in Scienze naturali conseguita a Roma, don Ferdinando fu per anni professore nel seminario di Verona e insegnante di religione in un importante liceo della città. Il Vescovo monsignor Giuseppe Carraro lo incoraggiò a diffondere la conoscenza dell’Opus Dei attraverso i suoi incarichi diocesani, e così avvenne.
Vari giovani e adulti, uomini e donne, aderirono in quegli anni all’Opus Dei a Verona e nei dintorni, tanto che i direttori dell’Opera in Italia, che non avevano il progetto di stabilire centri a Verona cambiarono i programmi e stabilirono centri in quella città che non aveva ancora un’università. Don Ferdinando aveva sempre avuto grande talento intellettuale e letterario, che, a partire da una vita d’orazione semplice e profonda, lo portava a predicare con attrattiva ed efficacia. I libri cominciarono a essere presto pubblicati. Tra i più conosciuti ricordiamo: Il senso del vivere, La Madonna racconta, La moneta del tempo. Un calendario per l’anima, Ricevi questo anello. Riflessioni sul matrimonio e la famiglia, Là dove cielo e terra si incontrano. Sulla preghiera cristiana e la Messa, Fiori di melograno.
Il rapporto di don Ferdinando con san Josemaría fu molto profondo. “Tutto il tempo che passai con lui fu una appassionata catechesi sullo spirito dell’Opus Dei. Si fermava su tanti particolari che sembravano insignificanti ed erano invece la materializzazione di uno o di altri aspetti dello spirito dell’Opera”. Sui giornali della città i veronesi hanno salutato don Rancan ricordandolo come parroco – docente – maestro di vita, come persona di dialogo, relazione, dalla spiritualità molto profonda, che coltivava il gusto dell’ascolto, che contemplava con ammirazione la natura e l’arte, che amava la conoscenza e rispettava i talenti di ciascuno.
Qualcosa della personalità di don Ferdinando si può scoprire in un’intervista di qualche anno fa concessa a Telepace e ascoltando le sue omelie.
Invitiamo coloro che hanno ottenuto intercessioni materiali o spirituali da questo Santo Sacerdote a segnalarle a: lafq@lafedequotidiana.it
Di seguito proponiamo una mini-biografia di Don Ferdinando Rancan curata dalla pedagogista Patrizia Stella.
*
Venerdì 11 gennaio 2019, il Vescovo di Verona, S.E.R. Mons. Giuseppe Zenti, nel bellissimo salone della Curia gremito di gente, chiamato “Sala dei Vescovi” perché sono rappresentate nel controsoffitto le figure degli oltre 300 Vescovi di Verona, al momento di iniziare la presentazione del libro autobiografico di don Ferdinando Rancan “Un somarello e la sua storia”, ha esordito dicendo: “Questo salone prestigioso affrescato prima del 1500 viene di solito riservato per eventi straordinari, e in effetti la vita di don Ferdinando Rancan è stata un evento straordinario per tutta la diocesi”. Con questa premessa del Vescovo e con le testimonianze di Mons. Ezio Falavegna, Vicario episcopale, di don Ermanno Tubini, guida spirituale di don Ferdinando, e della signora Marisa Bommartini, testimone della sua vita, è stato tracciato un breve profilo della sua vita umile ma straordinaria: don Ferdinando non si è distinto per missioni o locuzioni straordinarie, ma per essere stato un autentico sacerdote, saggio, dotto, umile, provato nel corpo e nell’anima, di grandi virtù e disponibilità verso tutti, frutti di una intensa vita spirituale che ha saputo cogliere “i segni dei tempi” rimanendo sempre ancorato alle verità della Fede che non mutano con il tempo.
Nato a Tregnago di Verona il 14 giugno 1926, entrò giovanissimo in seminario ma, proprio alla vigilia della sua ordinazione sacerdotale, dopo anni di stenti e di guerre, dovette superare una grande prova che lo vide inspiegabilmente espulso dal seminario e “catapultato” a Roma dove proseguì gli studi presso l’università “La Sapienza” laureandosi in Scienze Naturali. Nonostante questi tre anni di forzato esilio, da solo in una città sconosciuta, mai gli sfiorò l’idea di tradire il suo ideale sacerdotale perché era certo che prima o poi lo avrebbe raggiunto. Era infatti un segno della volontà di Dio questa inspiegabile estromissione perché proprio a Roma ebbe l’occasione di conoscere il Fondatore dell’Opus Dei, Josemaria Escrivà, arrivato in Italia da pochi anni, e di chiederne l’ammissione come primo sacerdote diocesano d’Italia, diffondendo poi la spiritualità dell’Opus Dei a Verona e nel Nord, non senza tribolazioni. Risolto nel frattempo il “malinteso” col Vescovo e completati gli studi teologici, ricevette l’Ordinazione Sacerdotale a Verona il 29 giugno 1953, dedicandosi all’insegnamento nel Seminario diocesano e nei Licei della città, prima di essere chiamato a svolgere il suo ministero sacerdotale nella parrocchia di S. Nazaro, poi nella Pieve dei Santi Apostoli e infine nella chiesa di Sant’Eufemia. Era noto in particolare come confessore e direttore spirituale, a disposizione delle persone che uscivano da colloqui o confessioni con lui sentendosi risollevati nell’anima e nel corpo.
La sua profonda umiltà, non quella falsa che cede ai venti di tempesta, ma quella ben solida perché ancorata alla Parola di Dio e ai Sacramenti, è manifestata perfino dal titolo che lui stesso ha voluto dare al suo libro autobiografico “Un somarello e la sua storia”, perché, sull’esempio di San Escrivà, tale si riteneva davanti a Dio e agli uomini, mentre la sua vasta cultura si manifestava anche attraverso quel dono soprannaturale della “Sapienza” che Dio concede ai suoi servi fedeli, a coloro che intuiscono e vivono il valore profondo del dolore, dell’umiliazione e della sofferenza per la salvezza delle anime in unione con Dio. A conferma di questo, riportiamo un brano del libro citato, a pag. 226 che narra un episodio particolare accadutogli da giovane, in Seminario, all’età di 20 anni circa: “Quando a sera i miei compagni si mettevano a letto, io, approfittando della difficoltà a coricarmi secondo l’orario per problemi allo stomaco, mi recavo in cappella fermandomi in ginocchio fino a tardi davanti al Tabernacolo (…) Una sera, mentre mi recavo in cappella, entrando nel corridoio completamente al buio, fui attratto da un tenue chiarore che illuminava un’immagine collocata sopra la porta. Era l’immagine di Gesù che teneva in mano, nell’atteggiamento di offrirlo, il suo cuore ferito e sanguinante, circondato da spine, avvolto dalle fiamme e sormontato da una croce. Il suo sguardo intenso e dolcissimo si incontrò col mio e subito mi ricordai delle sue parole: “Ecco il cuore che ha tanto amato gli uomini e da essi non riceve che ingiurie e indifferenza”. Quel tenue chiarore sul volto luminoso di Gesù che accennava a un sorriso delicato e insieme severo mi lasciò profondamente turbato e mi parve di intuire che senza dolore è difficile capire l’amore. Così mi sentii spinto a chiedere con insistenza al Signore di soffrire molto per poter vivere più profondamente l’intimità con lui. Forse fu presunzione, forse superficialità o incoscienza, ma credo che il Signore abbia accolto, almeno in parte, la mia preghiera, perché nella mia vita non ho mai saputo cosa fosse il benessere fisico”.
Ma don Ferdinando Rancan dovette affrontare problemi di salute anche gravi, con rischio per la sua vita, da sempre, sin dalla nascita, legati soprattutto a difficoltà respiratorie eppure mai lo si vide lamentarsi. In particolare si aggravarono le sue condizioni fisiche verso i 52 anni, quando gli dovettero asportare il polmone sinistro infetto da bronco-ectasie purulente, tanto da costringerlo negli ultimi dieci anni, dagli 80 ai 90, a usare il ventilatore polmonare di notte e la bombola dell’ossigeno tutti i giorni. Tuttavia, questa precarietà della sua salute causata da persistenti infezioni che minacciavano anche l’unico polmone rimasto, procurandogli febbre alta e fibrillazione atriale che debilitavano tutto l’organismo e che i medici curavano con dosi massicce di antibiotico o con ricoveri in rianimazione nei momenti peggiori, mai gli impedì di svolgere il suo ministero sacerdotale a pieno ritmo, seguendo la catechesi dei ragazzi, organizzando pellegrinaggi mariani, incontri di formazione per famiglie, occupandosi personalmente dei poveri e malati della parrocchia, oltre che della ristrutturazione del complesso parrocchiale dei Santi Apostoli e trovando anche il tempo per scrivere libri di formazione cristiana, dei quali il più bello in assoluto, a detta di molti, è “IN QUELLA CASA C’ERO ANCH’IO” – Storia di Gesù narrata da un “bambino speciale”. Il tutto con un ottimismo di fondo che si manifestava anche con battute umoristiche e perfino ironiche. Era un sacerdote che, sia pur malato, amava la vita e il mondo “appassionatamente” come è nella spiritualità di San Escrivà. Negli ultimi anni della sua vita, ci esortava a pregare molto per l’Italia e le nostre famiglie, fortemente bersagliate dal diavolo.
Vero “Alter Christus”, trovò nel Sacrificio Eucaristico quella forza soprannaturale che sempre lo accompagnò anche nei momenti più difficili, tanto che era inconcepibile per lui passare un giorno senza celebrare la Messa. Negli ultimi anni, non potendo andare in parrocchia, anche a motivo di una progressiva cecità causata da trombosi all’unico occhio sano rimastogli, celebrava la Messa in casa, sulla mensola di una libreria allestita a tale scopo, ma quando veniva ricoverato, la celebrava perfino all’ospedale, sul tavolino della stanza da letto, avendo sempre a disposizione una valigetta con tutto l’occorrente, a meno che non fosse immobilizzato in rianimazione. Perfino certe sere quando tornava a casa dopo una giornata di analisi e visite mediche estenuanti, non si metteva a cena se non dopo aver celebrato la Messa del giorno. Sosteneva che la Messa doveva essere, in un certo senso, un tutt’uno col sacerdote, perché sua prerogativa esclusiva, un privilegio così grande da far tremare Angeli e Santi dalla gioia pensando che solo ai Sacerdoti cattolici in virtù del Sacramento dell’Ordine Sacro, è stato concesso da Dio stesso “Il privilegio di portare Gesù vivo e vero dal Cielo alla terra per offrirlo agli uomini”.
Valori da coma. L’ultimo giorno della sua vita, tra il 9 e il 10 gennaio 2017, quando fu ricoverato d’urgenza in Pronto Soccorso per l’aggravarsi della situazione respiratoria, Silvia e io, che lo abbiamo accompagnato in questo particolare momento assieme a suo nipote Gianni, a un certo punto rimanemmo sbalorditi davanti a una frase pronunciata dal medico anestesista che veniva ogni tanto a controllare la situazione. Egli uscì con queste testuali parole: “Noi medici (del reparto di pneumologia di Borgo Trento dove veniva spesso ricoverato e che ringraziamo per le cure prestate), noi medici ci siamo chiesti più volte come abbia fatto quest’uomo a vivere con valori da coma! (Si riferiva ai controlli periodici effettuati tramite test digitale sui rapporti ossigeno, anidride, Ph ecc.). E davanti al nostro sguardo allibito che chiedeva ulteriori spiegazioni, questi rimarcò con maggiore sicurezza: “Si! È vissuto con valori che per un uomo normale significano coma”. Vedendo l’aggravarsi della situazione, chiamammo don Ermanno che venne subito a somministrargli il Sacramento dell’Unzione dei malati benedicendolo con affetto prima di andarsene. Poco dopo, don Ferdinando Rancan ebbe come un improvviso risveglio, che di solito viene chiamato risveglio “ante mortem”, si mise a sedere sul letto, si guardò intorno e la prima cosa che chiese fu questa: “Portatemi a casa perché voglio dire la Messa!” Furono le sue ultime parole perché poi entrò in coma profondo e si trovò a celebrare la Messa in Paradiso.
Più tardi, venne il medico ad avvisarci che dai controlli fatti gli restavano poche ore di vita e che potevamo rimanere accanto a lui fino al grande passaggio. Subito guardammo l’orologio che segnava le ore 17 circa del 9 gennaio e pensammo che forse il Signore lo avrebbe chiamato al cielo lo stesso giorno della data di nascita del fondatore dell’Opus Dei, che era proprio il 9 gennaio. Guardavamo con attenzione il passare delle ore: 19, 20, 21… e il suo respiro che continuava con fatica ma ancora ben deciso, mentre gli tenevamo la mano pregando sottovoce San Giuseppe, patrono della buona morte. Finché arrivarono le ore 23 e poi le 24, cioè la fine del giorno 9 gennaio. Silvia e io notammo che, passate le ore 24, il suo respiro ebbe come un collasso improvviso, divenne sempre più debole, fino a cessare del tutto un’ora dopo, vale a dire all’UNA del 10 GENNAIO 2017. Capimmo senza bisogno di parole che don Ferdinando Rancan, nella sua umiltà e delicatezza di vita, già in contatto col cielo, non voleva far coincidere la data della sua morte di semplice sacerdote, con quella della nascita del suo Santo Fondatore, autorità ben più grande per la Chiesa e Maestro di vita spirituale. La data del 9 gennaio doveva rimanere tutta e solo per San Josemaria Escrivà.
Che don Ferdinando ci protegga dal cielo e aiuti tutti i cristiani, in particolare i sacerdoti, ad essere fedeli alla propria vocazione, da consacrati o da laici. E non c’è altro modo di rimanere fedeli alla propria vocazione se non AMANDO, perché il nostro rapporto con il Dio cristiano è innanzitutto un rapporto personale di amore, di paternità e di filiazione divina. E ci si innamora di Gesù, sull’esempio di don Ferdinando, frequentandolo nell’Eucaristia quotidiana e nel Tabernacolo. E mentre i malvagi si impegnano a fare propaganda ai loro modelli perversi, noi cristiani abbiamo il dovere di far conoscere con santo orgoglio i nostri “servi buoni e fedeli” chiedendo loro grazie e favori, ma soprattutto il dono della perseveranza finale