Ogni viaggio porta con sé il privilegio della conoscenza diretta e senza intermediari, di luoghi, persone, popoli, lingue, culture, sapori, odori, fedi diverse. È un modo per guardare meglio dentro di sé stessi attraverso gli altri, così diversi a volte nelle abitudini, eppure così simili a noi. A questa esplorazione interiore, nel nostro caso, si aggiunge la dimensione familiare, cioè il viaggio diventa occasione per testare la nostra coesione, gestire i conflitti e affrontare gli inevitabili imprevisti, ordinaria amministrazione con quattro figli che hanno esigenze diverse, di età compresa tra i sei ed i quattordici anni, maschi e femmine.
Un tempo eravamo viaggiatori, adesso forse ci avviciniamo più a moderni pellegrini che, senza rinunciare ai comfort, comunque, cercano Dio nelle chiese, nei monumenti, nelle persone, nelle conversazioni, nei luoghi, nella storia di quel popolo che si va ad incontrare.
È questo lo spirito con cui ci muoviamo alla volta della Romania, per partecipare al viaggio apostolico di Papa Francesco ed in particolare alla Santa Messa celebrata a Blaj, per la beatificazione dei sette vescovi uccisi sotto il regime comunista.
L’occasione arriva grazie all’invito dei Padri Somaschi che, nella loro missione di Baia Mare, da quasi quindici anni, si occupano di bambini e giovani a rischio, provenienti da famiglie svantaggiate dal punto di vista sociale o direttamente dalla strada.
Avere un marito lombardo significa partire con un programma preciso e dettagliato. Per lui, sposare una calabrese, significa, invece, non rispettarlo ed introdurre parole e pensieri sconosciuti nel suo vocabolario, come “abbiamo un piccolo imprevisto”, “bisogna rallentare la tabella di marcia”, “il pranzo non può durare mezz’ora”, “se salta questa visita, pazienza!”, “fermati, che la bambina sta per vomitare in macchina!”, “siamo in pauroso ritardo ma è tutto ok” ecc…
La Romania è subito una piacevolissima sorpresa. Nel nostro distorto immaginario, pensavamo di trovare un paese depresso dal punto di vista economico e sociale e, invece, siamo catapultati in una terra molto bella dal punto di vista paesaggistico, con un popolo fiero ed operoso: strade pulitissime e aiuole curate come a Lugano, tanto nelle città, quanto nei più sperduti villaggi, ci lasciano ammirati e senza parole.
Probabilmente l’italiano medio identifica i rumeni con la minoranza etnica dei rom (che rappresenta meno del 3% della popolazione) e compie una veloce e superficiale associazione di idee tra certa criminalità riportata dalle cronache e un intero popolo che, invece, dopo la tragica esperienza della dittatura comunista, sembra desideroso di crescere e riscattarsi: sono tanti i romeni di ritorno dopo esperienze lavorative all’estero, in particolare dall’Italia, ai quali si sentono storicamente legati. La storia, infatti, ci insegna che l’antica popolazione romena dei Daci fu romanizzata dai soldati dell’Impero che, dopo la ritirata di Aurelio, rimasero nella regione. Ed è frequente ancora oggi trovare il monumento della Lupa in molte delle loro piazze.
Da subito, ci colpisce il forte rispetto per i luoghi sacri: i monasteri e le chiese, ortodosse e cattoliche non fa differenza, oltre che splendide dal punto di vista artistico e architettonico, sono curate con amore e devozione. Ovunque entriamo, a qualsiasi ora, c’è qualcuno chino a pulire, spolverare, lucidare banchi e oggetti sacri, pavimenti e arredi. Non si tratta di pura forma o rispetto esteriore o semplice manutenzione; la sensazione è che, per i romeni, la fede si dimostra intanto attraverso la cura continua, quotidiana, costante dei luoghi di preghiera, tanto all’interno, quanto all’esterno: i roseti, i fiori, le piante sono una cornice immancabile intorno a chiese e monasteri.
Partiti da Catania e arrivati direttamente a Bucarest, prendiamo la nostra auto a noleggio, il modo migliore per muoversi in autonomia e scegliere quando fermarsi e cosa vedere e ci dirigiamo verso Sibiu.
Lungo la strada, la prima tappa, secondo il puntiglioso programma di mio marito, è lo splendido Monastero di Cozia, a cui arriviamo costeggiando il fiume Olt. Il tanto vituperato Medioevo, qui come altrove, ha prodotto uno dei monumenti dell’arte bizantina più preziosi della Romania, un gioiello senza eguali, risalente al 1386, che ci lascia senza parole: splendidi gli affreschi, molti dei quali raffigurano gli arcangeli, e imponente il crocifisso sospeso. Visitiamo l’annesso museo, dove sono custoditi manoscritti originali medievali e oggetti della liturgia, soprattutto calici e croci. Intorno al monastero,ci sono il giardino e la saletta con le luminarie. Scopriamo che ci sono spazi diversi per posizionare le candele, a seconda se si vogliono offrire per i vivi e per i morti: i ragazzi si dividono a gruppi di due, pregando chi per amici e parenti e chi per i defunti.
Ci rimettiamo in cammino e, purtroppo, la pioggia ci costringe alle prime variazioni di programma: meglio raggiungere Sibiu prima possibile. Ma lungo la strada, incrociamo il monastero di Cornet, dedicato alla “Decollazione di San Giovanni Battista”, il mio santo. Risale al 1666 e decidiamo di scendere a visitarlo. La particolarità è la totale immersione del luogo sacro nella natura: un giovane monaco ci invita a raggiungere il piccolo cimitero con le grandi croci bianche a terra, il museo e lo splendido giardino che, nel punto più alto, si affaccia sul sottostante fiume. Passeggiamo tra fiori e roseti ed entriamo anche qui nella saletta dedicata alle luminarie per i vivi e per i morti: ci fermiamo ancora qualche minuto in preghiera, ricordando i tanti amici che seguono virtualmente il nostro pellegrinaggio. Il monaco ci osserva con un’aria di sufficienza, ma a tratti appare meravigliato e infine quasi interessato a cosa facciamo: si percepisce che gli ortodossi non hanno una grande simpatia per i cattolici, che considerano “annacquati”, tiepidi, secolarizzati. Effettivamente sul punto non hanno poi tutti i torti.
Vedo che i ragazzi sono rapiti da tanta bellezza, da tanto raccoglimento, da tanta spiritualità: un’atmosfera che, ahimè, nelle nostre chiese, a volte, si fa fatica a trovare. Intorno a noi il silenzio ci avvolge. Li osservo: hanno lo sguardo rivolto verso l’alto ad osservare il Gesù Benedicente che sovrasta la cupola dei monasteri. Ancora di più mi convinco che, sin dalla più tenera età, si può e deve loro proporre la fede nella sua dimensione più alta, senza inseguire le mode del mondo.
Lasciato il Monastero di Cornet, ci fermiamo in una trattoria e ordiniamo i piatti tipici. La regola è che all’estero sono bandite pizza e pasta e si assaggiano i prodotti locali (unica eccezione: il Mac Donald in caso di fame insopportabile ed urgente in mancanza di valide alternative!). Gustiamo per la prima volta la ciorbā, una squisita minestra brodosa con pezzetti di carne e vari ortaggi, di origine turca, servita con panna acida e peperoncino a parte. I ragazzi prendono la schnitzel: effettivamente, guardandosi intorno, il verde curatissimo e la cotoletta fanno tanto Germania e contrastano con l’idea preconcetta che avevamo della Romania.
Una volta rifocillati, sotto una pioggia sempre più battente, ci rimettiamo in macchina diretti a Sibiu. Le ragazze collegano il bluetooth e cominciano a cantare a squarciagola, mentre i due più piccoli si addormentano.
Questa intensa giornata non poteva concludersi, però, senza l’immancabile imprevisto. Ammetto che questa volta superiamo noi stessi quando, giunti in appartamento (posto al quinto piano senza ascensore!), ci accorgiamo che il nostro serafico figlio, nel sali-scendi dall’auto, tra un pisolino e l’altro, ha perso una scarpa. “Sono cose che succedono”, dice lui. “Solo a noi”, aggiunge mio marito, che, sconsolato, va a prenderne un paio nuove. “Effettivamente, mamma, erano un po’ vecchie quelle”.
La mattina dopo, la forte pioggia ci impedisce di uscire. Ne approfittiamo per fare cose che i nostri frenetici ritmi di vita quotidiani, spesso ci impediscono di compiere: per esempio stare qualche ora sul divano a leggere, chiacchierare scambiandoci le impressioni su questi primissimi giorni in Romania e ridere, ma veramente tanto, sulla misteriosa sparizione della scarpa!
Piano piano il cielo si apre, finché spunta un sole caldissimo. In men che non si dica siamo in strada in pieno centro a Sibiu. Ormai è ora di pranzo e, si sa, i ragazzi hanno sempre fame! Si mangia all’aperto in una trattoria ai piedi dell’antica Chiesa evangelica, che non riusciamo a visitare perché chiusa per ristrutturazione. Cominciamo a girare per il centro: c’è una maratona e tantissima gente in giro: offrono da bere e da mangiare ai passanti, regalano palloncini ai bambini. Siamo in mezzo alla gente e scopriamo un popolo cordiale e ospitale, che ha voglia di vivere, gioire e riscattarsi.
Sibiu è considerata tra le più belle città della Romania: i suoi tetti “con gli occhi”, il ponte delle bugie, Piata Mare, gli splendidi palazzi colorati, i fiori posti in ogni angolo,sono per noi una grande sorpresa.
Mescolando sacro e profano, passiamo dal divertimento in piazza alla Chiesa dei Gesuiti (le cui splendide vetrate colorate raffigurano San Giorgio e San Michele Arcangelo), dallo zucchero filato alla splendida Cattedrale ortodossa della Santissima Trinità, dove una vecchietta, a cui riusciamo a malapena a fa capire che siamo in Romania per assistere alla messa di Papa Francesco, con grande commozione, prende le nostre mani tra le sue, le bacia e ci invita a fare il segno della crocee pregare insieme. Ancora una volta sono i luoghi sacri e gli incontri con le persone a sorprenderci!
Il giorno seguente la sveglia suona alle 4:00 del mattino. Da Sibiu dobbiamo raggiungere Blaj – chiamata la “piccola Roma” per la forte presenza di cattolici – e il Campo della Libertà, dove abbiamo appuntamento con il gruppo della Missione Somasca. Fila tutto abbastanza liscio (ad eccezione del navigatore che insiste per tre volte su quella strada chiusa dalla polizia!) e finalmente, dopo i lunghissimi controlli, siamo dentro. Posizioniamo le sedie e cominciamo ad attendere. Intanto la foschia grigia e l’umidità del primo mattino lascia il posto ad un sole estivo, che ci farà rientrare in Italia abbronzati.
In breve tempo, l’enorme area si riempie di pellegrini giunti da ogni parte della Romania e dall’estero: si stima che oltre sessanta mila fedeli siano accorsi per assistere alla Divina Liturgia di beatificazione dei sette vescovi martiri greco-cattolici Iuliu Hossu, Vasile Aftenie, Ioan Bālan, Valeriu Traian Frentiu, Ioan Suciu, Tit Liviu Chinezu e Alexandru Rusu. Un numero enorme se si pensa che in Romania i cattolici sono appena il 7%.
Racconto ai ragazzi per sommi capi la loro storia: prima il regime comunista si scagliò contro la minoranza dei cattolici romani, per indurli a convertirsi alla chiesa ortodossa che, in quanto autocefala, veniva considerata più facilmente controllabile dal partito. Al loro rifiuto, fecero seguito torture e un regime carcerario disumano che li condusse alla morte. Dopo, la persecuzione proseguì contro migliaia di laici, sia cattolici che ortodossi, legati in quella “fraternità di sangue” di cui parlerà parlerà Papa Francesco durante l’omelia.
L’arrivo Papa Francesco è salutato con gioia e accompagnato da splendidi canti. La celebrazione della santa messa in rito bizantino, nonostante l’impossibilità di coglierne tutti i passaggi a causa della lingua, ci coinvolge per la spiritualità forte trasmessa attraverso i gesti, le preghiere, la musica sacra. Alcuni momenti scuotono il cuore: il messaggio del cardinale Lucian Muresan quando dice “Petru este aici” (Pietro è qui) e consegna a Papa Francesco una teca in argento con le reliquie dei Beati e l’icona che li ritrae; poi i nomi dei martiri, uno dietro l’altro, mentre sono esposti i quadri con le loro immagini e le persone intorno a noi piangono; infine l’eucarestia, i pezzetti di pane intinti nel vino, una novità per le nostre figlie, molto emozionate.
L’omelia di Papa Francesco, in italiano e sottotitolata in romeno sui maxischermi, si sposa nei contenuti con la disposizione di cuore dei fedeli, andando loro incontro.
La condanna della dittatura e dell’ateismo sono inequivocabili (“Queste terre conoscono bene la sofferenza della gente quando il peso dell’ideologia o di un regime è più forte della vita e si antepone come norma alla stessa vita e alla fede delle persone; quando la capacità di decisione, la libertà e lo spazio per la creatività si vede ridotto e perfino cancellato. Fratelli e sorelle, voi avete sofferto i discorsi e le azioni basati sul discredito che arrivano fino all’espulsione e all’annientamento di chi non può difendersi e mettono a tacere le voci dissonanti. Pensiamo, in particolare, ai sette Vescovi greco-cattolici che ho avuto la gioia di proclamare Beati. Di fronte alla feroce oppressione del regime, essi dimostrarono una fede e un amore esemplari per il loro popolo. Con grande coraggio e fortezza interiore, accettarono di essere sottoposti alla dura carcerazione e ad ogni genere di maltrattamenti, pur di non rinnegare l’appartenenza alla loro amata Chiesa. Questi Pastori, martiri della fede, hanno recuperato e lasciato al popolo rumeno una preziosa eredità che possiamo sintetizzare in due parole: libertà e misericordia (…). I nuovi Beati hanno sofferto e sacrificato la loro vita, opponendosi a un sistema ideologico illiberale e coercitivo dei diritti fondamentali della persona umana. In quel triste periodo, la vita della comunità cattolica era messa a dura prova dal regime dittatoriale e ateo: tutti i Vescovi, e molti fedeli, della Chiesa Greco-Cattolica e della Chiesa Cattolica di Rito Latino furono perseguitati e incarcerati”).
Papa Francesco precisa che “alla tenacia nel professare la fedeltà a Cristo, si accompagnava in essi una disposizione al martirio senza parole di odio verso i persecutori, nei confronti dei quali hanno dimostrato una sostanziale mitezza”, riportando le parole del Vescovo Iuliu Hossu durante la prigionia: «Dio ci ha mandato in queste tenebre della sofferenza per donare il perdono e pregare per la conversione di tutti». Questo atteggiamento di misericordia nei confronti degli aguzzini è un messaggio profetico, perché si presenta oggi come un invito a tutti a vincere il rancore con la carità e il perdono, vivendo con coerenza e coraggio la fede cristiana”.
Mi accorgo, invece, che in Italia, subito dopo l’omelia, si contesta a Papa Francesco di non avere qualificato politicamente il tipo di dittatura, insomma di non avere mai pronunciato la parola “comunismo”. Mi sono allora chiesta se lo stesso disappunto e la stessa aspettativa siano diffusi anche tra i fedeli romeni. Dando un’occhiata anche alla stampa e ai servizi televisivi, mi è subito chiaro che il coro è pressocché unanime: il popolo ha atteso e accolto Pietro (“Petru este aici”) e, forse per l’approccio più spirituale che caratterizza la fede da queste parti, al pastore non si chiede un messaggio sociale o politico, ma di essere guida per il futuro. È evidente che il comunismo ha lasciato ferite profonde, perché fa parte tra l’altro di un passato recente, tuttavia gli occhi che incrocio e piangono i loro vescovi martiri, mi sembrano riconciliati, non guardano indietro e non hanno bisogno di condanne o proclami contro il regime comunista. Loro lo hanno vissuto ed archiviato, classificandolo nella sfera di ciò che è male. A Papa Francesco chiedono presenza, conferma, preghiera.
Metto in valigia e porto con me questo grande insegnamento del piccolo gregge romeno, che non viviseziona le parole di Papa Francesco, non cerca significa reconditi nel suo messaggio, non critica il detto e il non detto, ma attende il pastore e festeggia il suo arrivo.
Dell’omelia di Papa Francesco, invece, porto nel cuore l’invito a lottare contro le “nuove ideologie che, in maniera sottile, cercano di imporsi e di sradicare la nostra gente dalle sue più ricche tradizioni culturali e religiose. Colonizzazioni ideologiche che disprezzano il valore della persona, della vita, del matrimonio e della famiglia e nuocciono, con proposte alienanti, ugualmente atee come nel passato, in modo particolare ai nostri giovani e bambini lasciandoli privi di radici da cui crescere”.
Non è un invito tiepido, blando, ma chiaro e inequivocabile: “Vorrei incoraggiarvi a portare la luce del Vangelo ai nostri contemporanei e a continuare a lottare, come questi Beati, contro queste nuove ideologie che sorgono. Tocca a noi adesso lottare, come è toccato a loro lottare in quei tempi. Possiate essere testimoni di libertà e di misericordia, facendo prevalere la fraternità e il dialogo sulle divisioni, incrementando la fraternità del sangue, che trova la sua origine nel periodo di sofferenza nel quale i cristiani, divisi nel corso della storia, si sono scoperti più vicini e solidali. Fratelli e sorelle carissimi, vi accompagnino nel vostro cammino la materna protezione della Vergine Maria, Santa Madre di Dio, e l’intercessione dei nuovi Beati”.
Questo breve ma inteso (e disorganizzato) pellegrinaggio in Romania si conclude con la Santa Messa, sotto un sole che brucia i nostri volti. Il giorno dopo avremmo dovuto visitare il famoso castello del Conte Dracula, ma è chiuso. I ragazzi non mi sembrano delusi. Hanno vissuto tanti momenti intensi e significativi ed è forte il loro, come il nostro, desiderio di tornarci.
Giovanna Arminio
Un bellissimo racconto. I ragazzi, con tutta evidenza, avranno capito che lì c’era molto più del conte Dracula.
Vlad III di Valacchia.
……Orazio, se i ragazzi hanno studiato la Storia,avranno certamente separato la Storia con la ‘S’ maiuscola, dai romanzi, che pur prendendo spunto da fatti veri,appunto ‘romanza’ ,oppure,a volte falsifica totalmente (vedi Dan Bown con il Codice Da Vinci):
https://it.wikipedia.org/wiki/Vlad_III_di_Valacchia