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Di Diego Torre


Diversi analisti concordano, anche alla luce degli esiti dei ballottaggi alle amministrative, che la sinistra tiene i grossi centri e la destra rimane provinciale e rurale. Il ragionamento viene poi esteso ad altre esperienze europee (Francia e Germania soprattutto) e agli stessi Stati Uniti d’America, guardando i sondaggi che vedono i dem asserragliati nelle grandi città e Trump dilagare nel resto del paese. La lettura del fenomeno per quanto grossolana è corretta; più complesso definirne le cause.
Un primo elemento di facile constatazione consiste nel permanere a “destra” di un mentalità individualista facilmente incline al qualunquismo; ma anche all’assenteismo, tanto “sono tutti uguali”. A sinistra invece uno spirito “collettivista” e “militante” è certamente più presente. E ciò spiegherebbe perché ai ballottaggi in particolare la sinistra abbia maggior successo: il compagno va a votare, il conservatore va a mare. Sono atteggiamenti riscontrabili già nei vandeani o nei cristeros, che vinte alcune battaglie tornavano a casa, richiamati da loro “particulare” e perdevano di vista l’aspetto globale degli eventi, mentre il loro nemico perseverava nella guerra fino alla distruzione totale dell’avversario. Anche in Italia, una maggioranza di destra che vince le elezioni del 1948, del 1994 e del 2022, che plaude volentieri a leader carismatici (ieri De Gasperi, Craxi, Berlusconi, oggi Meloni), alla lunga si trova in crisi dinnanzi alla “macchina da guerra” della sinistra che poteva (e può ancora) contare su quella egemonia culturale costruita nel tempo con astuzia e lungimiranza. E che dire dello spirito militante di sinistra perfettamente incarnato dal Peppone di Guareschi? L’annullamento dello spirito critico del trinariciuto (anche se oggi in possesso della laurea) è conforme e necessario alla realizzazione del mito collettivista, dove ogni sapere, giustizia ed autorità vengono attribuiti all’ente superiore al quale si deve ogni ossequio del pensiero e della volontà; ieri il partito o lo stato totalitario con la sua ideologia, oggi il grande fratello con il suo politicamente corretto.
Quasi per niente è analizzato il secondo elemento, più profondo e vetusto. La grande città è il luogo dello sradicamento, dell’omologazione cosmopolita, della cultura illuminista. Lo strapaese rimane invece parzialmente ancorato ai valori naturali e tradizionali. Anche quest’analisi è grossolana ma veritiera.
Riuscirà la destra a capire che la sua capacità di durare e crescere nel tempo deriva dalla difesa, dall’approfondimento e dalla valorizzazione del suo deposito culturale o continuerà a parlare il linguaggio dell’avversario, a cedere nei principi in cui si ritiene perdente (magari senza combattere) fino a dimenticarne il peso e la perennità? Riuscirà a darsi parole d’ordine, scuole di formazione, classi dirigenti che non cedano di uno iota o un apice sulla natura dell’uomo, sulla philosophia perennis necessaria alla conoscenza della verità oggettiva degli esseri umani e dei rapporti sociali?
Il confronto di domani sarà sempre più fra la realtà con i suoi principi fondanti e i capricci soggettivi con le relative utopie ideologiche. Riuscirà la destra ad essere fedele alla sua identità senza inseguire le mode del politicamente corretto o quei signori delle preferenze che abbandonano quando gira il vento? Da questo dipendono la sua dignità e le sue chance di vittoria. Recita un saggio proverbio che il cavallo buono si vede a lunga corsa. Ed è comunque meglio perdere con le proprie bandiere che vincere con quelle degli altri.

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