I responsabili dei Percorsi Doctor Humanitatis di Verona hanno pubblicato oggi la riproduzione testuale di quanto il cardinale Gerhard Ludwig Müller ha insegnato durante una Conferenza dal tema “La Preghiera, Dono di Dio”, tenutasi a Verona il 17 maggio scorso.
La FEDE QUOTIDIANA pubblica il testo integrale, senza censure!
La Preghiera, dono di Dio
di Gerhard Card. Müller
«Signore, insegnaci a pregare!» (Lc 11,1)
di Gerhard Card. Müller
«Signore, insegnaci a pregare!» (Lc 11,1)
In tutte le religioni la gente prega. E ci sono preghiere e formule di preghiera paragonabili tra loro, che nemmeno alle orecchie dei cristiani suonano del tutto estranee. Infatti, esse sono ovunque espressione dell’atteggiamento che gli esseri umani nutrono verso la contingenza dell’esistenza terrena in questo mondo, in vista della speranza che esista una potenza soprannaturale. La somiglianza delle preghiere sta nel fatto che tutti gli uomini devono affrontare le stesse sfide. Tutti vivono le speranze suscitate dalla nascita di una nuova vita e tutti sono terrorizzati dalla sofferenza e dalla morte. È tra questi due poli – la vita e la morte – che si svolgono i drammi e le commedie della nostra esistenza su questa terra. La differenza radicale però sta nel destinatario delle nostre preghiere. È una differenza incolmabile se la trascendenza è il nirvana; se essa, negli dei pagani, riflette e codifica puramente l’essenza superiore dell’uomo; o invece se nella preghiera posso rivolgermi direttamente a Dio, a Colui che è il mio Creatore e Redentore.
Persino alcuni atei pregano. Senza negare in alcun modo il significato e la necessità della preghiera, il critico della religione, Ludwig Feuerbach, nella suo opera «L’essenza del cristianesimo» (1845), considera il Dio personale della fede ebraica e cristiana una mera proiezione dell’essere umano su una divinità ultraterrena, che immaginiamo come una persona umana assolutizzata. Se l’uomo stesso è un dio per l’uomo (homo homini Deus), allora egli prega rivolgendosi a se stesso sotto forma di una meditazione che ruota sempre intorno a lui: l’uomo è al tempo stesso il soggetto e l’oggetto della preghiera. Nella preghiera cristiana però, l’uomo si rivolge al tu di Dio che non è il prodotto dei pensieri e dei desideri dell’uomo, ma un essere supremo in se stesso. A differenza del cristiano, l’uomo orante immaginato da Feuerbach non affida le sue preoccupazioni a Dio il Signore, mettendosi sotto la sua benevola protezione. Piuttosto, dinnanzi alle sofferenze e alle difficoltà della vita, egli trova conforto nella devota contemplazione del proprio essere superiore – e cioè divino – : “Il Signore Gesù, quando prega il Padre perché ‘tutti siano una sola cosa, come io et tu siamo una cosa sola’ (GV 17,21-22), aprendoci prospettive inaccessibili alla
ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle Persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nell’amore. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé” (Gaudium et spes 24). Però, questa ricetta dell’auto-redenzione mediante auto-divinizzazione non funziona, così come non funziona dare a un uomo in pericolo di vita, il consiglio di districarsi da solo dalle pastoie in cui si trova. Per Feuerbach, la preghiera è soltanto la consapevolezza della presunta immortalità della specie umana, di cui io, nella mia carne corruttibile, sono l’esempio mortale. Il ruotare su se stessi tipico della preghiera atea, è l’opposto della preghiera cristiana.
In quest’ultima, l’uomo si apre alla chiamata di Dio, che ci ha creati a sua immagine e somiglianza, rendendoci figli suoi in Cristo. Per questo, la salvezza si compie non soltanto in un gioco di pensieri, ma nella nostra esistenza fisica. Sapendo di essere mortali e corruttibili, non sogniamo di poter continuare a vivere nei geni trasmessi ai nostri discendenti o nei monumenti fatti di minerali e pietra, testimoni della fama degli antichi eroi. Infatti, veniamo «liberati dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21).
Saprò cos’è la preghiera e come pregare soltanto quando Colui con cui voglio parlare rivela se stesso. Possiamo parlare con Lui soltanto se sarà Lui a parlarci prima nella sua Parola, in Gesù Cristo, effondendo in noi il suo Spirito Santo. «Non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio. Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8, 26ss).
È questa la preghiera cristiana, che si differenzia dalle preghiere di tutte le altre religioni non solo nei dettagli, ma nella sostanza. Soltanto con la preghiera ebraica si colloca in un continuum dell’auto-rivelazione di Dio, che però ha raggiunto il suo culmine in Gesù Cristo. E riguardo a Cristo emerge anche la differenza, in quanto i cristiani possono chiamare Dio “Abbà” – Padre – soltanto per mezzo di Cristo nello Spirito Santo (Rm 8,15). È vero che possiamo adottare i salmi e altre preghiere dell’Antico Testamento letteralmente, ma noi li comprendiamo e recitiamo avendo
come orizzonte la fede nel Dio trinitario, nell’incarnazione del Figlio e nell’effusione dello Spirito Santo nei cuori di coloro che credono in Lui.
Anche l’Islam conosce la fede nell’unico Dio, intesa però come fede naturale nell’esistenza di Dio e non come fede quale virtù infusa con speranza e amore, che ci rende partecipi della vita di Dio, facendo sì che noi rimaniamo in Lui e Lui in noi.
Non possiamo pregare come o con i musulmani, perché la loro fede in Dio e la sua auto-rivelazione non è solo diversa dalla fede cristiana in Dio, ma ne nega addirittura la formula, sostenendo che Dio non abbia un Figlio, che, come Verbo eterno del Padre, è una persona divina, e, con il Padre e lo Spirito Santo, è il Dio unico e trinitario. Di conseguenza, i fedeli dell’Islam non sono figli adottivi di Dio per mezzo della grazia di Cristo, ma solo suoi sudditi. Possono pregare soltanto un Dio lontano, sottomettendosi alla sua volontà come a un destino ignoto. La loro preghiera esprime la cieca subordinazione al volere dominante di Dio. Il cristiano invece prega che sia fatta la volontà di Dio, volontà che compiamo in libertà e che non ci rende schiavi, ma figli liberi di Dio.
La preghiera cristiana è radicata nella conoscenza di Dio e si realizza nelle virtù divine della fede, della speranza e della carità.
Il rapporto cristiano con Dio inizia con la chiamata di Gesù e cioè quando Egli chiamò i discepoli a sé e al Regno di Dio. È nel rapporto di Gesù con Dio, che Dio rivela la sua natura, il suo amore paterno per noi. Quando chiamiamo Dio “Padre”, questo non significa “prendersi troppa confidenza”. Allo stesso modo, se Dio, Padre di Gesù Cristo, attraverso e in Cristo, ci permette di chiamarlo “Padre”, questo non ha nulla a che vedere con il gesto condiscendente di una persona più grande e altolocata che permette ai suoi di darGli del “tu”. Piuttosto, il fatto che possiamo chiamare Dio “Padre”, dandogli del “tu”, si fonda sulla nostra adozione a figli di Dio nell’incarnazione di Gesù, nella sua morte in Croce e nella sua Risurrezione.
Quando i discepoli tornano dalla loro missione di proclamare il Vangelo del Regno di Dio ovunque nel nome di Gesù, Gesù loda il Padre nei Cieli per la Rivelazione nella quale Dio si comunica agli uomini, accogliendoci nella sua vita e nella comunione del Padre e del Figlio nello Spirito Santo: «Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Lc 10, 22).
Noi preghiamo dunque Dio Padre, che si è rivelato nel suo Figlio, riversando nei nostri cuori lo Spirito Santo, lo Spirito dell’amore (Rm 5,5). Da soli, e cioè senza la presenza di Dio in Gesù Cristo, non possiamo pregare Dio e non sapremmo nemmeno cosa e come pregare.
Ed è così che, nel Vangelo di Luca, poco dopo questa auto-rivelazione di Dio nel suo Figlio e nello Spirito Santo, i discepoli possono dire a Gesù, che è la presenza umana di Dio: «Signore, insegnaci a pregare!» (Lc 11,1).
Perciò, colui che ci insegna come pregare la preghiera del Signore è il Maestro divino. Il pater noster non è dunque soltanto una formula di preghiera e un modello per altre formule di orazione. Fa parte della Rivelazione di Dio, Signore e Salvatore del suo popolo eletto, come storia della salvezza compiutasi in Cristo. Gesù ci fa entrare nella sua preghiera con il Padre. Allo stesso modo in cui il Figlio come «Verbo che era presso Dio e il Verbo che era Dio» (Gv 1,1) parla con il Padre, essendo con Lui l’unico Dio trinitario nel dialogo e nella comunicazione eterna, ora anche noi possiamo chiamare Dio “Padre”, con il Figlio, per mezzo del Figlio e nello Spirito Santo.
La preghiera, dunque, è parlare con Dio. Ma non è come il chiacchierare dei pagani che usano tante parole. Tutte le nostre parole, con le quali esprimiamo le nostre gioie e i nostri dolori, si uniscono nell’unica PAROLA, che è il Figlio, Colui che ha accolto la nostra umanità votata alla morte e al peccato, redimendoci e rendendoci liberi. In Cristo adoriamo Dio, onorando Lui soltanto, perché sappiamo di aver ricevuto gloria e dignità umana da Dio, nostro Creatore. In Cristo uniamo anche tutte le nostre suppliche, perché Egli si è caricato dei nostri pesi e delle nostre sofferenze, offrendo se stesso al Padre sull’altare della Croce come sacrificio per la salvezza del mondo.
Fonte e culmine di tutte le nostre preghiere è l’Eucaristia, la preghiera di Cristo e della Chiesa. La santa messa, in quanto ripresentazione sacramentale del sacrificio della Croce, è adorazione, ringraziamento e glorificazione di Dio. È la fonte dell’amore di Dio al di sopra di tutto e la forza della carità. In essa, possiamo chiedere a Dio tutto ciò di cui abbiamo bisogno spiritualmente, intellettualmente e fisicamente per una vita dignitosa da individui e come comunità. Chiediamo che si compia la nostra speranza nella rivelazione come figli in mezzo alle preoccupazioni,
le sofferenze, le privazioni e le persecuzioni del mondo. Rafforzati dall’Eucaristia, possiamo anche partecipare al sacrificio della Croce in espiazione per i peccati del mondo, per i nostri errori e le nostre negligenze. E così possiamo dare compimento a «ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24).
Dei primi cristiani che, attraverso la fede in Cristo e nel Battesimo, vennero incorporati nella Chiesa, Corpo di Cristo, si dice: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle
preghiere» (At 2,42). E questi sono anche i segni della vita cristiana, fino ai giorni nostri e fino alla seconda venuta di Cristo. La preghiera cristiana è quindi comunicazione costante con il Dio Trinitario, l’essere coinvolti nel dialogo del Figlio con il Padre nello Spirito Santo. Preghiamo Dio nel silenzio del cuore, lodandoLo con una sola voce nella comunione di tutte le membra dell’unico Corpo di Cristo nella Chiesa. La preghiera dunque non è un rapporto privato con Dio, da cui ci aspettiamo aiuto, quasi fosse un alleato invisibile nella realizzazione dei nostri progetti e piani terreni. Nella preghiera ci sottomettiamo al volere di Dio, che vuole realizzare la salvezza di tutti gli uomini per mezzo di Cristo.
La corretta comprensione della preghiera cristiana è un’importante testimonianza della fede in Dio nel nostro tempo, che tende o a negarlo ateisticamente o a usurparlo teologicamente come garante di valori sociali e “salvatore privato” da invocare nei momenti di difficoltà.
Nella preghiera, la fede apre il nostro cuore e la nostra mente al rapporto personale di Dio con noi – rapporto da Lui liberamente costituito – affinché Dio rimanga sempre indisponibile e non possa essere oggettivato.
Poiché, a differenza di ciò che è oggetto dell’esperienza sensibile o delle leggi formali della logica, l’esistenza di Dio – e ancor meno le verità della Rivelazione – non possono essere provate con argomentazioni razionali, la libertà della fede quale atto personale di fiducia, conferisce all’uomo la superiore certezza di non doverla alla sua ragione, ma al suo essere sostenuto dalla verità di Dio. È soltanto dalla libertà della fede che scaturisce la preghiera intesa come rapporto personale con Dio.
Noi crediamo a Gesù, il Figlio del Padre, a motivo delle «parole di vita eterna» (Gv 6,68) e delle «le opere che compie» (Gv 14,12), avendoci dato come «Paraclito» lo «Spirito della verità» (Gv 14,16).
Le opere compiute da Dio nella storia della creazione e della salvezza, sono i mezzi attraverso i quali crediamo e riconosciamo i misteri della fede nell’unità della loro origine in Dio. Essi s’intrecciano gli uni con gli altri, proprio come le singole membra di un organismo, dando testimonianza della sua vita a partire da un principio.
Ed è proprio a causa della loro connessione organica, che i contenuti del Credo vengono anche chiamati “articoli (= membri) della fede”: articuli fidei. Il cristiano però non crede in una moltitudine di dogmi e articoli di fede. Egli crede in Dio – credere nel Deum – perché crede a Dio: credere Deo. Il contenuto formulato della fede – il dogma – è solo la via umana, colmato dalla verità di Dio, della conoscenza e confessione di questa verità. L’atto e il contenuto di fede non possono essere separati l’uno dall’altro, così come non si può separare il rapporto personale con Dio dall’appartenenza alla pubblica comunità confessionale della Chiesa. Non si può pregare Dio ignorandone la natura e la Rivelazione.
Poiché fede significa avere un rapporto personale con Dio basato sulla fiducia e sul fare esperienza di Lui nell’amore, cosa ben diversa da una conoscenza oggettiva delle cose materiali, dei valori astratti e delle leggi della logica, non si può parlare di Dio direttamente come oggetto della nostra comprensione. E non è nemmeno il “compagno celeste” sempre a nostra disposizione e facilmente inseribile nel piano che abbiamo stabilito per la nostra vita.
Noi preghiamo: sia fatta la Tua volontà. La nostra preghiera non assume un tono imperioso ed evocativo: adesso, con la tua onnipotenza, fa’ ciò che io voglio, ma da solo non posso fare, altrimenti è colpa tua se non credo in te! Nella preghiera ci rivolgiamo a Lui come persona, entrando in sintonia con la sua imperscrutabile volontà, che, al di là di ogni nostro progetto, vuole sempre la nostra salvezza eterna.
Agli altri testimoniamo i misteri della Rivelazione che celebriamo nella liturgia e di cui siamo resi partecipi attraverso i sacramenti.
Prima di ricevere la grazia sacramentale del Battesimo, il battezzando viene consacrato nel mistero della volontà salvifica universale di Dio e incorporato nel Corpo di Cristo, che è la Chiesa (1Cor 12,13) quando il sacerdote gli pone tre domande: se crede in Dio Padre Onnipotente, in Gesù Cristo suo Figlio unigenito e nello Spirito Santo (DH 10). A ogni domanda, il battezzando risponde: credo.
Attraverso la fede e il Battesimo, il suo “io-persona” si fonda sul rapporto personale con il Dio trinitario, il quale, per mezzo dei misteri della creazione, redenzione e santificazione, lo fa diventare figlio e amico di Dio, erede predestinato alla vita eterna, cioè divina. In questo modo la preghiera è radicata nella grazia, essendo espressione profonda del legame di fede con Dio. La preghiera cristiana comprende anche l’intercessione per tutti coloro che non hanno ancora raggiunto la vera conoscenza di Dio nella fede o che hanno abbandonato il cammino di fede che
avevano intrapreso.
La fede in Dio riguarda il mio essere o non essere, il dramma dell’umanità sospesa tra successo e fallimento definitivo. È nella fede, che il mio fragile “io”, nella sua interiorità profonda e nel suo attaccamento al mondo, trova «il fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (Ebr 11,1). La necessaria perseveranza nello
struggle for eternal life, può essere acquisita soltanto «tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Ebr 12,2).
La fede non è un’assunzione teorica o una pratica linea-guida per gestire il superamento della contingenza, ma la via che conduce alla vita in comunione con il Dio trinitario.
Nella sua natura umana, Gesù Cristo è la presenza corporea di Dio nella storia del suo popolo eletto e di tutta l’umanità: «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Ebr 1,1).
Dalla piena presenza dell’essere e operare di Dio nella sua Parola fattasi carne, «Figlio del Padre, nella verità e nell’amore» (2Gv 1,3), segue la seguente intuizione liberatrice: «Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco (= pagani), dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato» (Rm 10,12s).
Già prima della confessione di una certa religione e visione del mondo, l’umanità si trova connessa in un naturale orientamento spirituale verso l’inimmaginabile mistero dell’essere che trascende il mondo visibile. «Dai tempi più antichi fino ad oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità a quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, ed anzi talvolta vi riconosce la Divinità suprema o il Padre». Nonostante le diverse risposte, l’umanità alla ricerca della verità ultima dell’essere e della necessità di riuscire nella vita, spiritualmente e moralmente, sia come individui che in comunità, è profondamente unita e solidale.
I fedeli cristiani non vedono nei loro vicini, che non vogliono o non possono credere in Dio, degli avversari o delle vittime del Zeitgeist da compatire, ma dei fratelli che hanno come loro Creatore e Padre l’unico Dio, Colui che cercano.
Offrono loro un dialogo onesto sulla questione che determina il significato dell’essere in generale e dell’esistenza umana in particolare, perché si sentono uniti a loro nella «ricerca di un mondo migliore».
Il segno distintivo del cristiano è la fede che l’onnipotenza di Dio non limita la libertà della creatura, ma la arricchisce della «libertà e gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21).
Nell’ambito dell’essere finito, potere e libertà, bene comune e autodeterminazione sono destinati a scontrarsi duramente. L’onnipotenza dell’interesse generale e l’autonomia del volere individuale spesso si escludono a vicenda. Ma siccome Dio, con la Creazione del mondo, non guadagna e non perde nulla, Egli, nel suo amore, agli uomini «ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome» (Gv 1,12). La libertà umana partecipa della potenza creatrice e premurosa di Dio, realizzandola nel mondo (Gen 1,28), affinché l’uomo possa lavorare la terra – ut operaretur terram – crescendo, fiorendo, maturando e portando frutto nel giardino dellʼhumanum (Gen 2, 5ss).
Nella preghiera non vogliamo chiedere a Dio la sospensione delle cause naturali e creaturali o che esse siano rivolte a nostro vantaggio. Facciamo parte del suo piano di salvezza, lasciando che Egli ci coinvolga nella sua attuazione nella Chiesa e nel mondo. L’autonomia dell’uomo, legata a Dio e compiuta in Lui, «è anche conforme al volere del Creatore. Infatti è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l’uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o tecnica».
L’«autonomia delle realtà temporali» sarebbe del tutto fuorviante se negasse il rapporto universale e intimo tra Creazione e Dio. «La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di Dio nel linguaggio delle creature. Anzi, l’oblio di Dio rende opaca la creatura stessa».
Alla vista della tenda del cielo, l’uomo orante, scosso dalla sproporzione tra la sua piccola esistenza e l’incommensurabilità del cosmo, esclama con stupore: «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (Ps 8,5).
Chi crede in Dio, Creatore del cielo e della terra (Gen 1,1), confessa anche la somiglianza di ogni singolo uomo a Dio (Gen 1,26s), al quale tutti, senza eccezione, devono la loro esistenza e il loro essere simili a Lui, facendo sì che ne cantino le lodi: «Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani» (Sal 8, 6s).È questa la preghiera della fede. Ma quale altro scopo potrebbero avere le riflessioni teologiche sulla preghiera se non la convinzione degli uomini, che la felicità che desiderano non può essere altro che il loro Creatore e Redentore: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio» (Sal 42,2). Abbiamo colto il senso della nostra vita quando preghiamo Dio, dicendo con sant’Agostino: «Tu ci hai fatti per Te Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te– quia fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec reqiescat in te».
Persino alcuni atei pregano. Senza negare in alcun modo il significato e la necessità della preghiera, il critico della religione, Ludwig Feuerbach, nella suo opera «L’essenza del cristianesimo» (1845), considera il Dio personale della fede ebraica e cristiana una mera proiezione dell’essere umano su una divinità ultraterrena, che immaginiamo come una persona umana assolutizzata. Se l’uomo stesso è un dio per l’uomo (homo homini Deus), allora egli prega rivolgendosi a se stesso sotto forma di una meditazione che ruota sempre intorno a lui: l’uomo è al tempo stesso il soggetto e l’oggetto della preghiera. Nella preghiera cristiana però, l’uomo si rivolge al tu di Dio che non è il prodotto dei pensieri e dei desideri dell’uomo, ma un essere supremo in se stesso. A differenza del cristiano, l’uomo orante immaginato da Feuerbach non affida le sue preoccupazioni a Dio il Signore, mettendosi sotto la sua benevola protezione. Piuttosto, dinnanzi alle sofferenze e alle difficoltà della vita, egli trova conforto nella devota contemplazione del proprio essere superiore – e cioè divino – : “Il Signore Gesù, quando prega il Padre perché ‘tutti siano una sola cosa, come io et tu siamo una cosa sola’ (GV 17,21-22), aprendoci prospettive inaccessibili alla
ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle Persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nell’amore. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé” (Gaudium et spes 24). Però, questa ricetta dell’auto-redenzione mediante auto-divinizzazione non funziona, così come non funziona dare a un uomo in pericolo di vita, il consiglio di districarsi da solo dalle pastoie in cui si trova. Per Feuerbach, la preghiera è soltanto la consapevolezza della presunta immortalità della specie umana, di cui io, nella mia carne corruttibile, sono l’esempio mortale. Il ruotare su se stessi tipico della preghiera atea, è l’opposto della preghiera cristiana.
In quest’ultima, l’uomo si apre alla chiamata di Dio, che ci ha creati a sua immagine e somiglianza, rendendoci figli suoi in Cristo. Per questo, la salvezza si compie non soltanto in un gioco di pensieri, ma nella nostra esistenza fisica. Sapendo di essere mortali e corruttibili, non sogniamo di poter continuare a vivere nei geni trasmessi ai nostri discendenti o nei monumenti fatti di minerali e pietra, testimoni della fama degli antichi eroi. Infatti, veniamo «liberati dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21).
Saprò cos’è la preghiera e come pregare soltanto quando Colui con cui voglio parlare rivela se stesso. Possiamo parlare con Lui soltanto se sarà Lui a parlarci prima nella sua Parola, in Gesù Cristo, effondendo in noi il suo Spirito Santo. «Non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio. Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8, 26ss).
È questa la preghiera cristiana, che si differenzia dalle preghiere di tutte le altre religioni non solo nei dettagli, ma nella sostanza. Soltanto con la preghiera ebraica si colloca in un continuum dell’auto-rivelazione di Dio, che però ha raggiunto il suo culmine in Gesù Cristo. E riguardo a Cristo emerge anche la differenza, in quanto i cristiani possono chiamare Dio “Abbà” – Padre – soltanto per mezzo di Cristo nello Spirito Santo (Rm 8,15). È vero che possiamo adottare i salmi e altre preghiere dell’Antico Testamento letteralmente, ma noi li comprendiamo e recitiamo avendo
come orizzonte la fede nel Dio trinitario, nell’incarnazione del Figlio e nell’effusione dello Spirito Santo nei cuori di coloro che credono in Lui.
Anche l’Islam conosce la fede nell’unico Dio, intesa però come fede naturale nell’esistenza di Dio e non come fede quale virtù infusa con speranza e amore, che ci rende partecipi della vita di Dio, facendo sì che noi rimaniamo in Lui e Lui in noi.
Non possiamo pregare come o con i musulmani, perché la loro fede in Dio e la sua auto-rivelazione non è solo diversa dalla fede cristiana in Dio, ma ne nega addirittura la formula, sostenendo che Dio non abbia un Figlio, che, come Verbo eterno del Padre, è una persona divina, e, con il Padre e lo Spirito Santo, è il Dio unico e trinitario. Di conseguenza, i fedeli dell’Islam non sono figli adottivi di Dio per mezzo della grazia di Cristo, ma solo suoi sudditi. Possono pregare soltanto un Dio lontano, sottomettendosi alla sua volontà come a un destino ignoto. La loro preghiera esprime la cieca subordinazione al volere dominante di Dio. Il cristiano invece prega che sia fatta la volontà di Dio, volontà che compiamo in libertà e che non ci rende schiavi, ma figli liberi di Dio.
La preghiera cristiana è radicata nella conoscenza di Dio e si realizza nelle virtù divine della fede, della speranza e della carità.
Il rapporto cristiano con Dio inizia con la chiamata di Gesù e cioè quando Egli chiamò i discepoli a sé e al Regno di Dio. È nel rapporto di Gesù con Dio, che Dio rivela la sua natura, il suo amore paterno per noi. Quando chiamiamo Dio “Padre”, questo non significa “prendersi troppa confidenza”. Allo stesso modo, se Dio, Padre di Gesù Cristo, attraverso e in Cristo, ci permette di chiamarlo “Padre”, questo non ha nulla a che vedere con il gesto condiscendente di una persona più grande e altolocata che permette ai suoi di darGli del “tu”. Piuttosto, il fatto che possiamo chiamare Dio “Padre”, dandogli del “tu”, si fonda sulla nostra adozione a figli di Dio nell’incarnazione di Gesù, nella sua morte in Croce e nella sua Risurrezione.
Quando i discepoli tornano dalla loro missione di proclamare il Vangelo del Regno di Dio ovunque nel nome di Gesù, Gesù loda il Padre nei Cieli per la Rivelazione nella quale Dio si comunica agli uomini, accogliendoci nella sua vita e nella comunione del Padre e del Figlio nello Spirito Santo: «Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Lc 10, 22).
Noi preghiamo dunque Dio Padre, che si è rivelato nel suo Figlio, riversando nei nostri cuori lo Spirito Santo, lo Spirito dell’amore (Rm 5,5). Da soli, e cioè senza la presenza di Dio in Gesù Cristo, non possiamo pregare Dio e non sapremmo nemmeno cosa e come pregare.
Ed è così che, nel Vangelo di Luca, poco dopo questa auto-rivelazione di Dio nel suo Figlio e nello Spirito Santo, i discepoli possono dire a Gesù, che è la presenza umana di Dio: «Signore, insegnaci a pregare!» (Lc 11,1).
Perciò, colui che ci insegna come pregare la preghiera del Signore è il Maestro divino. Il pater noster non è dunque soltanto una formula di preghiera e un modello per altre formule di orazione. Fa parte della Rivelazione di Dio, Signore e Salvatore del suo popolo eletto, come storia della salvezza compiutasi in Cristo. Gesù ci fa entrare nella sua preghiera con il Padre. Allo stesso modo in cui il Figlio come «Verbo che era presso Dio e il Verbo che era Dio» (Gv 1,1) parla con il Padre, essendo con Lui l’unico Dio trinitario nel dialogo e nella comunicazione eterna, ora anche noi possiamo chiamare Dio “Padre”, con il Figlio, per mezzo del Figlio e nello Spirito Santo.
La preghiera, dunque, è parlare con Dio. Ma non è come il chiacchierare dei pagani che usano tante parole. Tutte le nostre parole, con le quali esprimiamo le nostre gioie e i nostri dolori, si uniscono nell’unica PAROLA, che è il Figlio, Colui che ha accolto la nostra umanità votata alla morte e al peccato, redimendoci e rendendoci liberi. In Cristo adoriamo Dio, onorando Lui soltanto, perché sappiamo di aver ricevuto gloria e dignità umana da Dio, nostro Creatore. In Cristo uniamo anche tutte le nostre suppliche, perché Egli si è caricato dei nostri pesi e delle nostre sofferenze, offrendo se stesso al Padre sull’altare della Croce come sacrificio per la salvezza del mondo.
Fonte e culmine di tutte le nostre preghiere è l’Eucaristia, la preghiera di Cristo e della Chiesa. La santa messa, in quanto ripresentazione sacramentale del sacrificio della Croce, è adorazione, ringraziamento e glorificazione di Dio. È la fonte dell’amore di Dio al di sopra di tutto e la forza della carità. In essa, possiamo chiedere a Dio tutto ciò di cui abbiamo bisogno spiritualmente, intellettualmente e fisicamente per una vita dignitosa da individui e come comunità. Chiediamo che si compia la nostra speranza nella rivelazione come figli in mezzo alle preoccupazioni,
le sofferenze, le privazioni e le persecuzioni del mondo. Rafforzati dall’Eucaristia, possiamo anche partecipare al sacrificio della Croce in espiazione per i peccati del mondo, per i nostri errori e le nostre negligenze. E così possiamo dare compimento a «ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24).
Dei primi cristiani che, attraverso la fede in Cristo e nel Battesimo, vennero incorporati nella Chiesa, Corpo di Cristo, si dice: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle
preghiere» (At 2,42). E questi sono anche i segni della vita cristiana, fino ai giorni nostri e fino alla seconda venuta di Cristo. La preghiera cristiana è quindi comunicazione costante con il Dio Trinitario, l’essere coinvolti nel dialogo del Figlio con il Padre nello Spirito Santo. Preghiamo Dio nel silenzio del cuore, lodandoLo con una sola voce nella comunione di tutte le membra dell’unico Corpo di Cristo nella Chiesa. La preghiera dunque non è un rapporto privato con Dio, da cui ci aspettiamo aiuto, quasi fosse un alleato invisibile nella realizzazione dei nostri progetti e piani terreni. Nella preghiera ci sottomettiamo al volere di Dio, che vuole realizzare la salvezza di tutti gli uomini per mezzo di Cristo.
La corretta comprensione della preghiera cristiana è un’importante testimonianza della fede in Dio nel nostro tempo, che tende o a negarlo ateisticamente o a usurparlo teologicamente come garante di valori sociali e “salvatore privato” da invocare nei momenti di difficoltà.
Nella preghiera, la fede apre il nostro cuore e la nostra mente al rapporto personale di Dio con noi – rapporto da Lui liberamente costituito – affinché Dio rimanga sempre indisponibile e non possa essere oggettivato.
Poiché, a differenza di ciò che è oggetto dell’esperienza sensibile o delle leggi formali della logica, l’esistenza di Dio – e ancor meno le verità della Rivelazione – non possono essere provate con argomentazioni razionali, la libertà della fede quale atto personale di fiducia, conferisce all’uomo la superiore certezza di non doverla alla sua ragione, ma al suo essere sostenuto dalla verità di Dio. È soltanto dalla libertà della fede che scaturisce la preghiera intesa come rapporto personale con Dio.
Noi crediamo a Gesù, il Figlio del Padre, a motivo delle «parole di vita eterna» (Gv 6,68) e delle «le opere che compie» (Gv 14,12), avendoci dato come «Paraclito» lo «Spirito della verità» (Gv 14,16).
Le opere compiute da Dio nella storia della creazione e della salvezza, sono i mezzi attraverso i quali crediamo e riconosciamo i misteri della fede nell’unità della loro origine in Dio. Essi s’intrecciano gli uni con gli altri, proprio come le singole membra di un organismo, dando testimonianza della sua vita a partire da un principio.
Ed è proprio a causa della loro connessione organica, che i contenuti del Credo vengono anche chiamati “articoli (= membri) della fede”: articuli fidei. Il cristiano però non crede in una moltitudine di dogmi e articoli di fede. Egli crede in Dio – credere nel Deum – perché crede a Dio: credere Deo. Il contenuto formulato della fede – il dogma – è solo la via umana, colmato dalla verità di Dio, della conoscenza e confessione di questa verità. L’atto e il contenuto di fede non possono essere separati l’uno dall’altro, così come non si può separare il rapporto personale con Dio dall’appartenenza alla pubblica comunità confessionale della Chiesa. Non si può pregare Dio ignorandone la natura e la Rivelazione.
Poiché fede significa avere un rapporto personale con Dio basato sulla fiducia e sul fare esperienza di Lui nell’amore, cosa ben diversa da una conoscenza oggettiva delle cose materiali, dei valori astratti e delle leggi della logica, non si può parlare di Dio direttamente come oggetto della nostra comprensione. E non è nemmeno il “compagno celeste” sempre a nostra disposizione e facilmente inseribile nel piano che abbiamo stabilito per la nostra vita.
Noi preghiamo: sia fatta la Tua volontà. La nostra preghiera non assume un tono imperioso ed evocativo: adesso, con la tua onnipotenza, fa’ ciò che io voglio, ma da solo non posso fare, altrimenti è colpa tua se non credo in te! Nella preghiera ci rivolgiamo a Lui come persona, entrando in sintonia con la sua imperscrutabile volontà, che, al di là di ogni nostro progetto, vuole sempre la nostra salvezza eterna.
Agli altri testimoniamo i misteri della Rivelazione che celebriamo nella liturgia e di cui siamo resi partecipi attraverso i sacramenti.
Prima di ricevere la grazia sacramentale del Battesimo, il battezzando viene consacrato nel mistero della volontà salvifica universale di Dio e incorporato nel Corpo di Cristo, che è la Chiesa (1Cor 12,13) quando il sacerdote gli pone tre domande: se crede in Dio Padre Onnipotente, in Gesù Cristo suo Figlio unigenito e nello Spirito Santo (DH 10). A ogni domanda, il battezzando risponde: credo.
Attraverso la fede e il Battesimo, il suo “io-persona” si fonda sul rapporto personale con il Dio trinitario, il quale, per mezzo dei misteri della creazione, redenzione e santificazione, lo fa diventare figlio e amico di Dio, erede predestinato alla vita eterna, cioè divina. In questo modo la preghiera è radicata nella grazia, essendo espressione profonda del legame di fede con Dio. La preghiera cristiana comprende anche l’intercessione per tutti coloro che non hanno ancora raggiunto la vera conoscenza di Dio nella fede o che hanno abbandonato il cammino di fede che
avevano intrapreso.
La fede in Dio riguarda il mio essere o non essere, il dramma dell’umanità sospesa tra successo e fallimento definitivo. È nella fede, che il mio fragile “io”, nella sua interiorità profonda e nel suo attaccamento al mondo, trova «il fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (Ebr 11,1). La necessaria perseveranza nello
struggle for eternal life, può essere acquisita soltanto «tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Ebr 12,2).
La fede non è un’assunzione teorica o una pratica linea-guida per gestire il superamento della contingenza, ma la via che conduce alla vita in comunione con il Dio trinitario.
Nella sua natura umana, Gesù Cristo è la presenza corporea di Dio nella storia del suo popolo eletto e di tutta l’umanità: «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Ebr 1,1).
Dalla piena presenza dell’essere e operare di Dio nella sua Parola fattasi carne, «Figlio del Padre, nella verità e nell’amore» (2Gv 1,3), segue la seguente intuizione liberatrice: «Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco (= pagani), dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato» (Rm 10,12s).
Già prima della confessione di una certa religione e visione del mondo, l’umanità si trova connessa in un naturale orientamento spirituale verso l’inimmaginabile mistero dell’essere che trascende il mondo visibile. «Dai tempi più antichi fino ad oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità a quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, ed anzi talvolta vi riconosce la Divinità suprema o il Padre». Nonostante le diverse risposte, l’umanità alla ricerca della verità ultima dell’essere e della necessità di riuscire nella vita, spiritualmente e moralmente, sia come individui che in comunità, è profondamente unita e solidale.
I fedeli cristiani non vedono nei loro vicini, che non vogliono o non possono credere in Dio, degli avversari o delle vittime del Zeitgeist da compatire, ma dei fratelli che hanno come loro Creatore e Padre l’unico Dio, Colui che cercano.
Offrono loro un dialogo onesto sulla questione che determina il significato dell’essere in generale e dell’esistenza umana in particolare, perché si sentono uniti a loro nella «ricerca di un mondo migliore».
Il segno distintivo del cristiano è la fede che l’onnipotenza di Dio non limita la libertà della creatura, ma la arricchisce della «libertà e gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21).
Nell’ambito dell’essere finito, potere e libertà, bene comune e autodeterminazione sono destinati a scontrarsi duramente. L’onnipotenza dell’interesse generale e l’autonomia del volere individuale spesso si escludono a vicenda. Ma siccome Dio, con la Creazione del mondo, non guadagna e non perde nulla, Egli, nel suo amore, agli uomini «ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome» (Gv 1,12). La libertà umana partecipa della potenza creatrice e premurosa di Dio, realizzandola nel mondo (Gen 1,28), affinché l’uomo possa lavorare la terra – ut operaretur terram – crescendo, fiorendo, maturando e portando frutto nel giardino dellʼhumanum (Gen 2, 5ss).
Nella preghiera non vogliamo chiedere a Dio la sospensione delle cause naturali e creaturali o che esse siano rivolte a nostro vantaggio. Facciamo parte del suo piano di salvezza, lasciando che Egli ci coinvolga nella sua attuazione nella Chiesa e nel mondo. L’autonomia dell’uomo, legata a Dio e compiuta in Lui, «è anche conforme al volere del Creatore. Infatti è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l’uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o tecnica».
L’«autonomia delle realtà temporali» sarebbe del tutto fuorviante se negasse il rapporto universale e intimo tra Creazione e Dio. «La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di Dio nel linguaggio delle creature. Anzi, l’oblio di Dio rende opaca la creatura stessa».
Alla vista della tenda del cielo, l’uomo orante, scosso dalla sproporzione tra la sua piccola esistenza e l’incommensurabilità del cosmo, esclama con stupore: «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (Ps 8,5).
Chi crede in Dio, Creatore del cielo e della terra (Gen 1,1), confessa anche la somiglianza di ogni singolo uomo a Dio (Gen 1,26s), al quale tutti, senza eccezione, devono la loro esistenza e il loro essere simili a Lui, facendo sì che ne cantino le lodi: «Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani» (Sal 8, 6s).È questa la preghiera della fede. Ma quale altro scopo potrebbero avere le riflessioni teologiche sulla preghiera se non la convinzione degli uomini, che la felicità che desiderano non può essere altro che il loro Creatore e Redentore: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio» (Sal 42,2). Abbiamo colto il senso della nostra vita quando preghiamo Dio, dicendo con sant’Agostino: «Tu ci hai fatti per Te Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te– quia fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec reqiescat in te».