di don Antonello Iapicca
Il digiuno è racchiuso nell’immagine della Pietà: la Vergine Maria che, con l’anima trafitta dal dolore, contempla colma d’amore e speranza il corpo senza vita del suo Figlio. Lo guarda e vede oltre i sensi il suo ritorno vittorioso, senza che ciò le risparmi il dolore d’una madre di fronte alla morte di suo Figlio. In questa prospettiva comprendiamo come digiunare costituisca una condizione essenziale dell’esistenza, la forma concreta di vivere in pienezza la vita terrena, che è già e non ancora. Lo Sposo è con noi, ma, nello stesso tempo, non è qui, perché il compimento al quale siamo chiamati ci attende nel Cielo.
La terra è un cammino, e la mancanza e il desiderio di pienezza si acuiscono nell’avvicinarsi alla meta: “Già presente nella sua Chiesa, il regno di Cristo non è tuttavia ancora compiuto «con potenza e gloria grande» (Lc 21,27) mediante la venuta del Re sulla terra. Questo regno è ancora insidiato dalle potenze inique, anche se esse sono già state vinte radicalmente dalla pasqua di Cristo. Fino al momento in cui tutto sarà a lui sottomesso, «fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora, la Chiesa pellegrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e attendono la manifestazione dei figli di Dio” (Catechismo della Chiesa cattolica).
Per questo digiunare è inginocchiarsi dinanzi al Crocifisso e implorare il suo ritorno, nella consapevolezza che proprio la perseveranza nella carità – innanzi tutto l’annuncio del Vangelo in ogni tempo e luogo – è l’unica via per affrettare la sua venuta: nella fornace del mondo, infatti, siamo chiamati a vivere “nella santità della condotta e nella pietà, attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio” (2 Pt. 3,12).