a cura di Daniele Trabucco* e don Roberto Caria**
Nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 150 del 28 giugno 2024 (Serie generale) è stata pubblicata la legge ordinaria dello Stato 26 giugno 2024, n. 86, in vigore dal 13 luglio, inerente al c.d. «regionalismo differenziato» o «regionalismo a doppia velocità», ovvero la possibilità, per tutte le Regioni a Statuto ordinario, di ottenere «forme e condizioni particolari di autonomia» (legislativa ed amministrativa con le relative risorse) in tutte le materie di potestà legislativa ripartita tra Stato e Regioni, indicate nel comma 3 dell’art. 117 della Costituzione italiana vigente, ed in alcune rientranti nella potestà legislativa esclusiva dello Stato di cui al comma 2 dell’art. 117 (ad esempio, l’organizzazione degli uffici del giudice di pace, le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali).
Ora, in via preliminare, è doveroso chiarire che la legge in esame, fortemente voluta dal gruppo parlamentare Lega-Salvini Premier, non conferisce alcuna autonomia, ma si limita a dare attuazione, in termini di procedimento da seguire, alla disposizione costituzionale contenuta nel comma 3 dell’art. 116 del Testo fondamentale, la cui attuale formulazione si deve alla legge di revisione costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 di riforma del Titolo V. Sul punto, peraltro, non sono mancati dubbi, avanzati da autorevolissima dottrina costituzionalistica (Omar Chessa), secondo cui il disposto costituzionale, più che problemi di attuazione, poneva e pone problemi di interpretazione, sebbene una legge attuativa possa evitare procedure e discipline diversificate come avvenuto in passato in occasione della conclusione delle intese tra lo Stato e le confessioni religiose diversa da quella cattolica ex art. 8, comma 3, Cost..
Il testo della legge c.d. «Calderoli», inoltre, pare aggravare in molti punti l’iter essenziale delineato dalla Costituzione, relegando i due rami del Parlamento alla semplice adozione, così si legge nell’ art. 2, comma 8, di una «deliberazione» (quando il Testo costituzionale parla chiaramente ed espressamente di «legge»), lasciando presagire un ruolo meramente passivo di Camera e Senato. Questi, invece, secondo la ratio sottesa all’art. 116, comma 3, della Costituzione, non solo possono approvare o respingere l’eventuale intesa raggiunta tra lo Stato e le Regioni ordinarie coinvolte, ma dispongono anche della facoltà di migliorarla o peggiorarla, dal momento che la legge, la quale richiede la maggioranza assoluta in entrambe le Camere, viene approvata «sulla base dell’intesa» e non in conformità ad essa. A questo si aggiunga che, sulle materie, vere e proprie «pagine bianche» riempite di contenuti dalla giurisprudenza della Corte costituzionale specialmente dopo la novella del 2001, pendono gli strumenti elaborati dallo stesso giudice delle leggi per indicare cosa rientra o meno all’interno di uno specifico ambito materiale. Questo significa, come ben evidenziato dal prof. Andrea Morrone dell’Università degli Studi di Bologna, che la discrezionalità delle due parti, Stato e Regioni, non è affatto libera. Infatti, a circoscrivere i «confini» delle materie intervengono i criteri che il giudice costituzionale, dal 2001 ad oggi, ha utilizzato: il criterio di continuità ordinamentale (sent. n. 282/2002 Corte cost.), il criterio di prevalenza (ex plurimis sent. n. 285/2005 Corte cost.), il criterio della chiamata in sussidiarietà (sent. n. 303/2003 Corte cost.), il criterio della leale collaborazione (ex plurimis sent. n. 278/2005 Corte cost.) etc. Pertanto, scrive Morrone, «il rinvio operato dall’art. 116 alle materie dell’art. 117, in definitiva, assomiglia molto a un rinvio mobile: nel senso che in concreto, sia in sede di intesa che in occasione dell’approvazione della legge, l’individuazione degli spazi del regionalismo differenziato sconterà inevitabilmente l’ipoteca giurisprudenziale maturata con riferimento a ciascun titolo oggettivo (con conseguenze evidenti anche in relazione alla supposta tassatività dell’elenco stabilito nell’art. 116, co. 3, Cost.)» (Cfr. A. MORRONE, Il regionalismo differenziato. Commento all’art. 116, comma 3, della Costituzione, in Federalismo Fiscale, n. 1/2007, p. 176).
Ci si è, infine, chiesti, a seguito della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della legge n. 86/2024, se questa, trattandosi di una fonte che dà attuazione ad un disposto costituzionale, possa o meno essere sottoposta a referendum abrogativo ex art. 75 Cost. Com’è noto, alcune Regioni ad ordinamento comune, quali Emilia-Romagna, Puglia, Campania, Sardegna e Toscana (la Costituzione stabilisce che il referendum abrogativo su una legge o un atto normativo avente forza di legge possa essere chiesto anche da cinque Regioni) si stanno muovendo per procedere all’indizione della consultazione referendaria. Ora, la Corte costituzionale, cui spetta il compito di dichiarare ammissibile il quesito, accanto alle leggi tributarie e di bilancio, le leggi di autorizzazione alla ratifica dei Trattati internazionali e le leggi di amnistia e indulto per le quali la Costituzione, nel comma 2 dell’art. 75, vieta espressamente il referendum, a partire dal 1978 ha ampliato la tipologia di leggi non abrogabili. In particolare, sulle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato (necessarie per il funzionamento degli organi costituzionali) e sulle leggi costituzionalmente obbligatorie (essenziali per il funzionamento dell’ordinamento democratico) Palazzo della Consulta ha escluso la possibilità di richiesta di un referendum abrogativo. Tuttavia, a prescindere dalle innegabili implicazioni politiche della eventuale consultazione, si deve rilevare come la legge ordinaria dello Stato n. 86/2024 non rientri in alcuno degli ambiti sopra indicati. Non solo la legge «Calderoli» costituisce una delle tante modalità di attuazione dell’art. 116, comma 3, Cost., ma la sua possibile abrogazione né comprometterebbe il funzionamento degli organi costituzionali e di rilievo costituzionale, né inciderebbe sulla tenuta del sistema democratico. Certamente un approccio più sinottico e più approfondito del rapporto tra centro e periferia (soprattutto se ha ancora senso continuare con il modello dello Stato regionale) consentirebbe un’analisi molto meno ideologica rispetto a quanto sta accadendo attorno a questo tema.
(*) Professore strutturato in Diritto Costituzionale e Diritto Pubblico Comparato
presso la SSML/Istituto di grado universitario
«san Domenico» di Roma.
Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico.
(**) Associato di Morale sociale presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna. Vice-Presidente del
Polo territoriale «Unikoinè» della SSML/Istituto di grado universitario «san Domenico» di Roma.
Vicario generale della Diocesi di Oristano.