di Padre Giuseppe Agnello*
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Man mano che ci avviciniamo al Natale, le letture ci fanno scoprire che il mistero che accade come evento stòrico e personale, si vuole trasformare in una morale nuova e abitata da Dio: la morale dell’incarnazione, che è la carità del Fíglio di Dio che vive in noi e ci chiede di non angustiarci per nulla. La giòia è l’espressione piú profonda del cristianésimo, perché tutte le altre virtú sono da essa sostenute e motivate: la fortezza e la pazienza nàscono dalla giòia di ricévere da Dio quanto ci serve e quanto ci manca; la sincerità e l’onestà nàscono dalla giòia di avere, per Dio, la Verità e la Bontà in persona; la saggezza e la prudenza nàscono dalla giòia di èssere istruiti non da un maestro qualsíasi ma dalla Sapienza eterna che ha ispirato la Sacra Scrittura e si è fatta vedere nel mondo in Gesú. Il rosàceo è il colore che ci parla di questa giòia: della giòia imminente, del sole vicino che squàrcia le tènebre, ma anche dell’incarnato: «il Verbo si è fatto carne» sentiremo il giorno di Natale; quindi l’attesa non può cédere allo sconforto.
Diceva il profeta Sofonia: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le bràccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di giòia» (Sof 3, 16-18). Il Salvatore potente entra nella stòria senza fracasso, umilmente, ma rinnovando tutto con il suo amore. E non vuole èssere solo in mezzo a noi, ma in noi. I profeti e gli apòstoli che lo annúnciano, lo descrívono “vicino”, “per noi”, “in mezzo al suo pòpolo”; il colore rosa della liturgia ce lo ricorda come Colui che illúmina il giorno (infatti la notte e il búio che cédono piano piano all’arrivo della luce, sono sostituite dal colore rosa che ci antícipa l’arrivo del giorno); ma anche come Colui che ci tiene in vita e si è incarnato per noi. ¿Di che colore sono, infatti, le persone vive e sane? Viola? No, sennò sarèbbero dette cianòtiche. Verde? No, perché sono verdi le persone invidiose o “abbiliate”, come diciamo noi. Giallo? Nemmeno, perché è il colore degli ittèrici. Forse il bianco? No! Bianchi sono i cadàveri. Le persone vive e sane sono di colore rosa o incarnato. Con buona pace del politicamente corretto, i colori finiti nei modi di dire non hanno nessuna accezione razziale e meno che mai i colori usati dalla liturgia. Il rosa della liturgia è il colore della giòia dell’incarnazione, che è una giòia superiore a quella di sapersi fatti per l’eternità: è la giòia di sapere che l’Eterno è entrato nel tempo, in un corpo umano e nel mio cuore. Mentre infatti il libro del Qoelet ci dice: «Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma ha messo la nozione dell’eternità nel cuore degli uòmini» (Qo 3, v.11); il profeta Aggeo che parla del nuovo tèmpio che è il Corpo di Cristo e dunque anche ogni cristiano, riporta questa promessa di Dio: «io riempirò questa casa della mia glòria» (Ag 2, v.7c). Di fronte a tutto ciò, sorge spontànea la domanda che ogni categoria di persona fa a Giovanni il Battista: «¿Che cosa dobbiamo fare?» (Lc 3, 10.12.14). Chi ascolta le parole certe che riguàrdano la venuta del Salvatore, non può restàrsene passivo, ma deve agire in modo diverso rispetto a chi non riflette sulle pròprie azioni o non crede di èssere nato per diventare casa di Dio. Quindi, ogni professione, ogni uomo, ogni età deve aspirare ad èssere battezzato «in Spírito Santo e fuoco», per èssere frumento e non pàglia; pècore di Cristo e non capre del Diàvolo. Gesú, infatti, pur misericordioso con tutti, non confonderà il bene con il male, non giudicherà secondo le apparenze, non valuterà corpi di cui non si è fatto corpo; pertanto dobbiamo prepararci ad accògliere la salvezza per gradi. Tutt’e tre le risposte di Giovanni il Battista alle folle, ai pubblicani e ai soldati raccomàndano di fuggire il male nel pròprio stato di vita, nelle forme dell’egoismo, dell’avidità, e della prevaricazione. La rettitúdine, però, che non nasce dalla giòia dell’incontro con Gesú Cristo, non è ancora la virtú cristiana che può manifestare tutto Gesú a chi ci osserva: è piuttosto una tinta di cristianésimo. Che vuol dire? Che ancora è conoscenza superficiale dell’èssere cristiani: è dovere di giustízia, non salvezza e amore incarnati. La tinta di cristianésimo, come la tinta dei capelli o di una stanza, non è garanzia di giovinezza e nemmeno di solidità di mura: esprime l’órdine di chi si prepara ad èssere davvero creatura nuova. La domanda «¿Che cosa dobbiamo fare?», dopo avere ricevuto lo Spírito Santo e il fuoco della sua carità, ha una risposta diversa in san Pàolo, che parla a creature nuove e a battezzati. E la risposta è questa: «Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!
Non angustiàtevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, súppliche e ringraziamenti.
E la pace di Dio, che súpera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesú» (Fil 4, 4-7). In queste parole non c’è piú l’inízio della morale cristiana, ma c’è la manifestazione della sua novità luminosa: attendiamo il Signore, che è vicino, ma già viviamo in Cristo Gesú e questo ci dà pace, ci fa lieti in ogni circostanza e ci rende amàbili. Èssere amàbili è il contràrio di èssere “tinti”. È amàbile chi è pieno dell’amore di Dio; è amàbile chi manifesta una giòia profonda e serena, non frívola e sradicata dalla vita soprannaturale che ci dà la preghiera. Al contràrio chi è tinto di cristianésimo e non proségue il suo cammino di santificazione attraverso l’accoglienza quotidiana di Gesú nella sua vita, da retto che era, può diventare tinto per eccellenza, cioè “cattivo”. Noi siciliani la parola “Tintu” la capiamo beníssimo in tutte le sue sfaccettature e implicazioni di male. Niccolò Tommaseo nel suo Dizionàrio della língua italiana dice che “tinto” per eccellenza è “il colore nero”, e quindi in senso figurato “il cattivo”. ¿Perché mai il cattivo si assòcia al colore nero? Perché il nero è il colore delle tènebre, dove ancora non è arrivata la luce di Cristo che fa rosa e che fa umani. Ce lo dice san Giovanni: «Chi òdia suo fratello è nelle tènebre, cammina nelle tènebre e non sa dove va, perché le tènebre hanno accecato i suoi occhî» (1Gv 2, v.11). Noi sappiamo dove stiamo andando; sappiamo Chi ci aspetta e che cosa si aspetta da noi: il Dio Incarnato ci vuole fratelli incarnati, lieti e amàbili sempre, perché la nostra morale non è un peso, ma un Dio che esulterà per noi con grida di giòia, se gli consegneremo per sempre il nostro cuore.
III Doménica di Avvento anno C, 15 Dicembre 2024. Sof 3,14-18; Is 12; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18
*L’autore aderisce ad una riforma ortografica della lingua italiana