«L’attacco al presepe richiede da parte cattolica una seria riflessione sulla secolarizzazione e le sue dinamiche», ha spiegato con un ampio e argomentato intervento l’Arcivescovo di Trieste e Presidente dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân, monsignor Giampaolo Crepaldi. «Del presepe viene contestata la costruzione nei luoghi pubblici. Il senso è preciso: la fede può essere al massimo tollerata come fatto privato. Il presepe va fatto in casa e non in piazza. È la privatizzazione della fede religiosa, che la laicità occidentale vanta come unica propria fede. Ciò dovrebbe valere per tutte le religioni. Tutte dovrebbero abbandonare la pubblica piazza e trasferirsi tra le mura domestiche. La società che ne deriverebbe sarebbe una società senza Dio e questa viene spacciata per neutralità rispetto a tutte le fedi, ossia per presunta laicità. Ma come può essere neutro chi vuol fare piazza pulita? Come può essere neutro chi discrimina le fedi religiose privandole della loro presenza pubblica? Certamente lo Stato ha, in certi casi, il dovere di vietare la manifestazione pubblica della religione. Il diritto alla libertà religiosa, per quanto riguarda il cosiddetto foro esterno, non è assoluto, ma sottoposto all’ordine pubblico e al bene comune. Lo Stato, per il bene comune, può limitare o anche vietare completamente la presenza pubblica di una religione. Ma nel caso in questione, il divieto non avviene per la salvaguardia di un bene comune, che lo Stato non è più nemmeno capace di immaginare, ma per un atto di imperio che tradisce una assolutezza politica molto pericolosa. Tradisce una politica che si fa religione e che gareggia con le religioni sul loro stesso piano assoluto. Si ha così uno scontro tra due religioni, e la laicità, che avrebbe dovuto essere uno spazio neutro e quindi pacifico, diventa un luogo pericoloso perché conflittuale».
Continuando nella sua riflessione sul senso della presenza del Presepe nelle scuole e nei luoghi pubblici monsignor Crepaldi aggiunge che «L’Italia – e con essa tutto l’Occidente – non sarebbe se stessa senza le proprie radici cristiane che sono ben visibili ovunque attorno a noi. È legittimo e doveroso far valere questo argomento storico e di identità contro quanti sostengono che, invece, per convivere con gli altri, ci si dovrebbe spogliare delle proprie tradizioni e di quanto esse ancora oggi ci danno. L’accoglienza e l’integrazione non si fanno nel vuoto e a volto coperto».
Monsignor Crepaldi conclude però rilanciando sul fatto che difendere le radici cristiane attraverso motivazioni storico-culturali è insufficiente. Questo perchè «può venire il momento che le nuove generazioni non siano più sensibili alla propria storia passata, alle proprie origini culturali o che, addirittura, diventino incapaci di leggere i segni della presenza cristiana attorno a noi. È proprio tra le bellissime basiliche gotiche della Francia che alligna il nuovo ateismo e, in genere, un giovane oggi non possiede le più elementari nozioni teologiche per poter leggere una pala d’altare, un affresco o un fregio. La nostra storia cristiana può diventare muta. Non può essere solo il “come eravamo” o il “è da lì che noi proveniamo” a salvarci dalla secolarizzazione che secolarizza anche il senso del passato come il senso in genere e non solo il senso religioso. Il presepe, come ogni altra manifestazione pubblica delle fede cristiana, ha diritto ad essere mantenuto non solo perché lì ci sono le nostre origini, ma perché è vero. È solo la verità della religione cristiana a valere come titolo ultimo del suo diritto ad una presenza nella pubblica piazza ed è solo perché questa religione, più di ogni altra, contribuisce al bene comune che il potere pubblico dovrebbe esso stesso difendere il presepe o qualsiasi altro simbolo di quella fede. Senza il Bambinello siamo tutti più poveri, anche i potenti di questa terra, che gestiscono la cosa pubblica senza sapere perché né come e che non sono in grado di valutare la verità delle diverse religioni preoccupandosi invece, con un gesto falsamente liberatorio, di eliminarle in blocco dalla pubblica piazza: fuori tutti da qui! Ma il senso di quel “qui”, di cosa significhi la comunità politica, a quel potere sfugge. Altrimenti utilizzerebbe quei criteri per valutare le religioni e per vedere che la fede cristiana è “dal volto umano”. Le tradizioni muoiono se non sono continuamente rivissute. Cristo non è una tradizione anche se la Chiesa ha una tradizione, una tradizione viva che si fonda sulla reale presenza di Cristo nella sua storia, proprio ciò che il presepe vuole rappresentare. Le autorità politiche non riusciranno a impedire il presepe, anche se ciò non toglie che si debba lottare perché non lo facciano. Non riusciranno nemmeno a difenderlo dalla secolarizzazione, anche se non possiamo esimerci dal richiederglielo. Ciò che conterà, alla fine, è che Cristo sia vissuto come Vero e come Vivo dai cristiani. Non solo come Vivo, ma anche come Vero, perché su questo si fonda la sua pretesa di essere presente nella pubblica piazza».
Matteo Orlando