“Attualmente l‘obbligo di pagare l’Ici esiste solo per le due scuole paritarie cattoliche di Livorno citate nella sentenza, mentre per tutte le altre andrà verificata caso per caso la spettanza o meno dell‘esenzione”. Giuseppe Cipolla, ordinario di diritto tributario all‘Università di Cassino e Lazio Meridionale, chiarisce a Radio Vaticana gli esiti della discussa sentenza della Cassazione di venerdì 24 luglio che ha stabilito che due istituti cattolici livornesi, gestiti da religiose, dovranno pagare gli arretrati Ici/Imu per gli anni dal 2004 al 2009.
Dunque, “la sentenza della Cassazione è un precedente più che autorevole, proveniente dal massimo organo di giustizia del nostro sistema, ma non è vincolante e dunque lascia libero qualsiasi giudice di decidere secondo le proprie determinazioni”. Su questa vicenda, spiega il giurista, “manca chiarezza normativa poiché la versione originale della norma risale al 1992 ma da allora si sono succedute diverse modifiche. Per capire se l‘imposta sia dovuta è necessario caso per caso accertare se l’istituto in questione svolga un’attività di carattere commerciale o meno. Spetta cioè alle scuole dimostrare che l’attività didattica è svolta con modalità che non siano commerciali. A questo proposito il Ministero dell‘economia e delle finanze è intervenuto nel 2012 con un decreto che stabilisce degli appositi parametri”.
“La questione più delicata è la decisione della Cassazione di considerare l’attività svolta dalle due scuole livornesi come ‘commerciale’ per il solo fatto che per questa chiedono il pagamento di un corrispettivo”, aggiunge Cipolla. Il decreto del 2012 stabilisce infatti che “se questo corrispettivo è di carattere simbolico, o inferiore al costo sostenuto per lo svolgimento dell’attività, non è di per sé prova della commercialità della stessa”. Insomma, “non è possibile fermarsi al dato del pagamento di una retta da parte dei genitori per stabilire se un‘attività sia commerciale. Bisognerebbe fare un passo in avanti e verificare caso per caso se quel corrispettivo è inferiore rispetto ai costi che la scuola paritaria in questione sostiene per lo svolgimento della sua attività. Se lo è significa che l’attività, pur essendo in perdita, viene portata avanti per il perseguimento di finalità di carattere sociale e dunque a quell’istituto spetta l‘esenzione”.
Un altro dato importante è che “la decisione della Cassazione riguarda l’attività didattica di due scuole paritarie cattoliche, ma il mondo del ‘non-profit’ abbraccia molte altre attività, come quelle assistenziali, sanitarie e sportive. Se passa il principio che il pagamento di una somma di denaro è di per sé indice di commercialità molte altre forme di attività potrebbero essere attratte nel campo di condivisione dell‘imposta”. (SIR)
“libero qualsiasi giudice di decidere secondo le proprie determinazioni”, e codesto è uno dei malanni italiani, lo strapotere incontrollato dei giudici.
Poi ci sarebbero mille altri motivi di discussione, ma attiro l’attenzione su un ossimoro fonte di infiniti equivoci: scuole “paritarie cattoliche”. I due aggettivi insieme non hanno senso. Lo dimostrerei col mio secondo libro, ma orami sono troppo vecchio per aver voglia di scriverlo.