L’insegnamento e l’uso della lingua latina è stato abbandonato sia dalla scuola che dalla Chiesa, con grave danno per entrambe.
Alla fine di un lungo studio sulla letteratura latina di Cicerone, san John Henry Newman scrisse in “The Idea Of A University”: “Sono assai sicuro di aver guadagnato molto in termini di precisione di pensiero, delicatezza di giudizio e raffinatezza di gusto”.
Queste parole del venerabile cardinale inglese descrivono perfettamente i sentimenti che un cultore di questa lingua prova quando si confronta con un testo classico. Il latino è un’esperienza unica, è di per sé didattico, è una combinazione di matematica e di poesia e non per niente il suo insegnamento – sconsideratamente abolito nella scuola pubblica – sopravvive là dove si formano le elites.
Interessanti sono le considerazioni pubblicate su Rassegna Stampa di un giovane cattolico cinese, nato a Beijing e cresciuto nella cosiddetta “Chiesa Patriottica” ma ormai fedele a Roma, su quella che egli definisce ”Regina Linguarum”.
Secondo il giovane, insegnante di latino in Irlanda, questa nobile lingua porta con sé anche una cultura e una tradizione. Senza almeno una conoscenza superficiale del latino è difficile avere una visione chiara e diretta dei fondamenti ultimi di molte cose, per esempio nel diritto, nella filosofia e nella letteratura.
Già da qui è facile comprendere l’enorme doppio danno che ci siamo inflitti: come italiani e cattolici