I ricercatori della Rollins School of Public Health (scuola di salute pubblica della Emory University di Atlanta, Georgia) hanno reclutato 18.370 statunitensi di età pari o superiore ai 50 anni, seguendo e intervistando i partecipanti allo studio dal 2004 fino al 2014. Dopo avere depurati i dati raccolti dai fattori ‘confondenti’ (il reddito elevato, il genere femminile ecc.), associati tradizionalmente ad un miglior livello di salute, sono emersi dati clamorosi. Indipendentemente dal tipo di religione seguita, chi ha frequentato funzioni religiose almeno una volta a settimana ha mostrato un rischio di mortalità inferiore del 40% rispetto a chi invece non ha mai partecipato. I frequentatori più assidui hanno infatti meno probabilità di fumare o bere alcolici, e sono stati più propensi ad effettuare screening sanitari e a fare attività fisica.
Il professor Raffaele Antonelli Incalzi, neo presidente della Società Italiana di Geriatria e Gerontologia ha spiegato all’ANSA che “la religiosità attiva è un marker che caratterizza una popolazione che ha minor rischio di morte, in virtù di un insieme di fattori protettivi, come migliori stili di vita e maggiore propensione alle relazioni sociali”. Inoltre, ha spiegato, “lo spirito religioso si associa in genere ad un’attitudine mentale positiva, che ‘protegge’ da malattie che si associano a personalità poco duttili, come ictus o colite ulcerosa. Ed è infine documentato che la religiosità protegge dalla depressione, notoriamente a sua volta associata a malattia e morte”.