di Daniele Trabucco
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Platone (428-348 a.C.), il grande filosofo greco allievo di Socrate, nella sua opera intitolata “Timeo” scrive: “L’Artefice (il demiurgo che plasma la materia esistente da sempre ad imitazione delle Idee) persuase la Terra-madre, senza posa, in disordinato e confuso movimento travolta, a passare dal cháos al cosmo, ritenendo tale condizione in ogni senso superiore alla prima”. Ora, diversamente dal fondatore dell’Accademia e da Aristotele (384 a.C. – 322 a.C.), il significato autentico della parola cháos, la cui radice indoeuropea é “cha”, non indica tanto mescolanza o disordine, ma ció che si apre, ció che si dischiude alla totalitá, cioé a quella dimensione che non lascia alcunché fuori di sé. Per questo motivo il poeta Esiodo (VIII – VII secolo a.C.), nella sua “Teogonia”, puó dire con forza che “All’inizio, per primo, fu il Chaos, poi la Terra dal largo petto…”. Dal Cháos (per i greci la materia é eterna e non creata) scaturisce, per utilizzare un linguaggio non piú mitico ma filosofico, l’essere cosa delle cose che, pur nel suo fluire, presenta una “veritá indiveniente” che non muta (il numero di Pitagora, l’Essere di Parmenide che respinge ogni mutamento poiché implicherebbe il non-essere, la forma della sostanza per Aristotele). L’antichitá ed il medioevo, illuminato dalla rivelazione cristiana, collocano l’essere cosa di ogni ente all’interno di limiti ben precisi: biologici, politici, etici, giuridici, religiosi etc. per evitare che la volontá di dominio su ció che é conduca a negarne la natura ed i fini che ad essa sono connessi. Tuttavia, nel momento in cui la modernitá afferma il primato del soggetto sull’oggetto (pensiamo a Cartesio (1596-1650) e, prima di lui, agli umanisti come Pico della Mirandola (1463-1494) e la sua gnosi) essa conduce prima alla emancipazione dell’Io (la res cogitans cartesiana, l’io penso kantiano), poi alla sua divinizzazione hegeliana espressa nel concetto dell’Idea o Spirito ed infine, alla sua stessa distruzione nel veleno nichilista di Nietzsche (1844-1900). In questo contesto filosofico nel quale si apre la contemporaneitá la volontá di dominio, rifiutando qualunque “veritá” dissoltasi con la “morte di Dio”, diventa controllo della totalitá stessa delle cose, non avendo più alcun limite, alcun argine. Questa (la volontá), completamente solidale con la scienza e la civiltá della tecnica (per usare un’espressione cara ad Emanuele Severino (1929-2020)), per svolgere appieno il proprio compito deve negare la Veritá originaria, quel dischiudersi alla totalitá di cui parlava Esiodo e storicizzarla. In questo modo, la Verità, perdendo la sua connotazione di innegabilitá, diviene facilmente caos, disordine. In altre parole, viene negata. Ecco allora che l’identitá é l’esito di un raccontato, l’individualitá é un aspetto della molteplicitá, il genere acquista una valenza meramente culturale etc. La vera domanda, dunque, che dovremmo porci é la seguente: quale “Veritá” dopo la negazione della Veritá stessa?