In questi giorni i media italiani dopo la morte di Fidel Castro, invece di ricordare la carriera del despota caraibico, responsabile dell’uccisione di almeno 15 mila oppositori a Cuba,“paiono ritrarre la figura di un grande statista del Novecento, – scrive la NuovaBQ.it – enfatizzandone i pregi, nascondendone i crimini. Un tema ricorrente: a Cuba si viveva peggio sotto Fulgencio Batista e la rivoluzione di Castro servì a migliorare le condizioni dei cubani. I maggiori vanti del sessantennio comunista? La sanità e l’istruzione. E una certa soddisfazione per aver tenuto testa a decenni di embargo americano, fino al disgelo avvenuto con il presidente (ora uscente) Barack Obama”.
Tuttavia a fronte dei continui panegirici del dittatore, il nostro pensiero dovrebbe andare ai tanti dissidenti che hanno pagato con la loro vita o che sono stati costretti ad abbandonare il loro paese.
“L’esodo verso la Florida fu una realtà che il mondo scoprì solo negli anni Ottanta. E che ha coinvolto più del 20% (sono quelli che sono riusciti a scappare) della popolazione. Si scappava in tutti i modi, anche sulle zattere. Era meglio morire in mare che restare un giorno di più sull’isola. Lo si comprende dalla gioia di chi nella mattinata di sabato ha invaso le strade di Miami per festeggiare la scomparsa del dittatore. Non è qualcosa di macabro o irriguardoso. A quegli uomini, quelle donne, quei ragazzi che sventolavano le bandiere di Cuba, Castro ha distrutto la vita per sempre, decimando le loro famiglie e costringendoli ad una fuga disperata dalla propria terra. Il senatore della Florida, Marco Rubio, ha ricordato che “purtroppo la morte del dittatore sanguinario non significa libertà per i cubani: il dittatore è morto, ma non la dittatura”.(Lorenza Formicola, Breve storia della guerra di Castro alle chiese di Cuba, 27.11.16).
Tra i tanti dissidenti, vittima del “paradiso cubano”, forse quello più noto è Armando Valladares, incarcerato per non aver abiurato il cristianesimo e aver amato il comunismo. Ho conosciuto Valladares in un affollato incontro organizzato da Alleanza Cattolica l’8 maggio 1987, nella sala del Centro Missionario Pime a Milano, quella sera il poeta esule cubano, presentava il suo libro “Contro ogni speranza. Dal fondo delle carceri di Castro”, edito da Sugarco editore di Milano nel 1985, raccontava, la vita terribile dei prigionieri politici nelle carceri di Castro e rompeva il muro di silenzio e di menzogna che, difeso dalla cultura ufficiale, circondava la verità del regime castrista a Cuba. Valladares viene liberato nel 1982 e mandato in esilio a Madrid, dopo ventidue anni di dura prigionia, dopo una lunga campagna internazionale a suo favore e su un intervento personale del presidente francese Francois Mitterand. Successivamente trasferitosi negli Stati Uniti, il presidente Ronald Reagan, lo nomina ambasciatore americano alla Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani.
Mentre a L’Avana continuano a considerarlo una «spia della Cia», a New York il Fondo Becket per la libertà religiosa gli ha appena conferito la Medaglia Canterbury 2016 per “il coraggio dimostrato nella difesa della libertà religiosa”. Dal palco, il dissidente 79enne ha denunciato quei governi occidentali che, al pari del regime cubano, cercano di violare la libertà di coscienza dei cittadini, chiedendo loro di «collaborare con gravi mali». Il premio l’ha ritirato con queste parole: “Lo accetto nel nome delle migliaia di cubani che hanno usato il loro ultimo respiro per esprimere la loro libertà religiosa, gridando, davanti all’esecuzione: “Lunga vita a Cristo re””.
Ricordo ancora oggi l’appassionata conferenza di quella sera a Milano, ho ancora le foto di quella manifestazione ben preparata da Alleanza Cattolica, tra l’altro pubblicizzata da decine di manifesti affissi per le vie principali di Milano. Alla fine della conferenza con pazienza e cura Valladares ha autografato con dedica le tante copie del suo libro (io ne possiedo una che tengo gelosamente).
Nelle 400 pagine delle sue memorie di prigionia, Valladares descrive minuziosamente il bestiale trattamento riservato ai nemici del regime comunista cubano. Contro ogni speranza, racconta l’inferno in cui egli ha vissuto e la storia di come un uomo sia riuscito a sopravvivere alle peggiori sevizie senza mai perdere la speranza, per quanto infondata potesse apparirgli. I detenuti che rifiutavano la “riabilitazione politica” erano costretti a vivere nel caldo più soffocante e nel freddo più intenso senza abiti (un particolare mi ha colpito, quando Valladares ha dovuto vedere sua mamma completamente nudo, proprio per farlo sentire un verme) venivano percorsi e presi a calci regolarmente dalle guardie; gettati nelle celle di punizione dove non filtrava mai un raggio di luce e dove non era possibile abbandonarsi al sonno perché le guardie lo impedivano lanciando secchi di urina e feci sui detenuti o stuzzicandoli con lunghe aste (ma erano anche i topi a tenere svegli: una notte, in una scena che richiama alla mente 1984 di Orwell, Valladares narra che si svegliò allorché un topo cercò di dilaniargli le dita).
Raccapriccianti sono le “celle cassetto”, gabbie di un metro, un metro e mezzo di altezza, dove il prigioniero non può stare in piedi, lunghe e strette. Si veniva rinchiusi lì per mesi, costretti a vivere in mezzo ai propri escrementi. Peraltro nei gulag di Fidel, in particolare, nel carcere di Boniato, i detenuti sono ridotti al livello di cavie per ‘esperimenti’ biologici che reggono il paragone con quelli eseguiti dai nazisti. Recentemente intervistato dal settimanale Tempi, Armando Valladares, ricorda a noi italiani, che ancora pendiamo dalla labbra dei vari gazzettieri che ci raccontano la favola castrista, la sua terribile prigionia nelle carceri di Fidel.
“Castro mi ha tolto tutto, tranne la coscienza.” Per otto anni Armando Valladares ha conosciuto solo una lunga notte, rinchiuso in una cella senza finestre né luce artificiale. Poi due anni di luce violenta e accecante, senza poter dormire né riposare gli occhi. In mezzo, altri 144 mesi di umiliazioni, pestaggi e torture disumane di ogni tipo”. (Nudi ma liberi. Intervista ad Armando Valladares, il più celebre dissidente cubano, di Leone Grotti, in Tempi 6.6.16)
“Il più celebre dissidente cubano, piccola luce nel buio del regime castrista, avrebbe potuto risparmiarsi tutto questo. I suoi carcerieri gli avevano offerto la possibilità di scegliere: se rinneghi ciò in cui credi, abiuri Dio e affermi di amare il comunismo e Fidel Castro sarai libero. Valladares non ha compiuto questo «suicidio spirituale», diventando uno dei prigionieri di coscienza più famosi al mondo. È sopravvissuto a 22 anni di prigione grazie alla fede e all’arte, le sue «armi», dipingendo e scrivendo poesie, usando anche il suo stesso sangue quando gli è stato tolto ogni altro mezzo”.
Illuminanti le risposte di Valladares sulla libertà religiosa a Cuba.“Bastava essere cristiani, come nel mio caso, per finire in carcere. Lo stesso vale per i Testimoni di Geova: con loro le torture hanno davvero superato ogni limite. Il sacerdote cattolico Miguel Angel Loredo è stato picchiato selvaggiamente per aver celebrato Messa dentro il carcere. Se un prigioniero veniva scoperto con una Bibbia o con qualunque altro materiale religioso veniva picchiato e portato in isolamento”. Valladares è abbastanza critico nei confronti dei cosiddetti intellettuali europei e in particolare, italiani.“Abbiamo avuto tanti Gabriel García Márquez”.
Infatti,“García Márquez ha messo la sua penna al servizio della tirannia di Fidel Castro. È stato complice delle torture e dei crimini di un regime che ha sostenuto e difeso in tutto il mondo. Ha detto che Cuba era l’unico paese dove si rispettavano i diritti umani! Questa canaglia è stato delatore del dissidente Ricardo Bofill, che lo accusò portando le prove della delazione fatta alla polizia politica. A Cuba aveva un’amante, Blanquita, che poteva essere sua nipote, e Castro gli regalò una casa perché potesse fare le sue porcherie. Quando un intellettuale utilizza i mezzi che gli sono stati donati per mentire sulla realtà politica e mette la sua penna al servizio di una dittatura, anche se ha grandi doti intellettuali, diventa una minaccia per la società”.
Domenico Bonvegna