«Lavorano per Satana mentre vestono come santi, e sanno che Dio esiste perché così gli ha detto il diavolo». Così parlava, riferendosi alla Chiesa Cattolica in occasione del lancio della sua canzone The Next Day, David Bowie, inserito al 23º posto nella lista dei 100 migliori cantanti secondo la rivista Rolling Stone, il quarto cantante più ricco del mondo secondo la rivista Forbes, morto il 10 gennaio all’età di 69 anni, a causa di un cancro contro il quale combatteva da qualche mese.
Nel biennio 1975-76, durante un soggiorno a Los Angeles, sembra abbia subito la fascinazione per l’occulto. Bowie, che viveva in un appartamento pieno di antichi manufatti egizi, candele nere sempre accese, circondato da varie iconografia nazista, era intento a studiare trattati di magia nera e a conservare in frigorifero la propria urina imbottigliata, terrorizzato dal fatto che un gruppo di streghe volesse rubare il suo sperma per qualche rito oscuro. Questa ossessione per la magia, l’occulto e le teorie superomistiche del filosofo Friedrich Nietzsche, non era nuova per Bowie che già ne aveva dato traccia in due canzoni presenti in Hunky Dory (1971), Oh! You Pretty Things e Quicksand, e in altri brani ancora precedenti come Cygnet Committee del ’69 e The Supermen del 1970. Ma la scintilla di questo rinnovato interesse sembrò essere un incontro avvenuto a New York con il “regista maledetto” Kenneth Anger, autore del film satanista Lucifer Rising.
David Bowie sbalordì tutto il mondo musicale quando, il 12 febbraio 1976, affermò alla rivista Rolling Stone: «Il rock è sempre stato la musica del diavolo […]. Credo che il rock sia pericoloso […]. Sento che stiamo solamente annunciando qualcosa di più oscuro di noi stessi».
In seguito Bowie espresse la sua ammirazione per la dottrina tibetana e per le filosofie orientali. «Molto di quello che all’inizio mi aveva attratto del buddhismo è rimasto con me, l’idea della transitorietà e che non c’è niente cui aggrapparsi pragmaticamente, che ad un certo punto dobbiamo lasciare andare ciò che consideriamo a noi più caro, perché la vita è molto breve. La lezione che ho probabilmente imparato più di qualsiasi altra cosa è che la mia soddisfazione viene da quel tipo di investigazione spirituale. E questo non significa che voglio trovare una religione a cui aggrapparmi, significa cercare di trovare la vita interiore delle cose che mi interessano». Così diceva Mick Brown del Daily Telegraph nel 1996.
Dichiaratosi prima omosessuale, poi bisessuale, in occasione del suo lancio sul mercato di massa, nel 1983, si affretterà a ritrattare le sue affermazioni precedenti, dicendo alla rivista Time che era stato “un grande equivoco” e su Rolling Stone lo definirà “il più grande errore che abbia mai fatto”. Nel 1993 sulla rivista Rolling Stone smentirà definitivamente la voce riguardante la sua bisessualità: «Non mi sono mai sentito un vero bisessuale ma ero magnetizzato dalla scena gay underground. Era come un altro mondo di cui volevo acquistare una quota. Questa fase durò solo fino al 1974, morì più o meno con Ziggy. Davvero, avevo solo fatto mia la condizione di bisessuale. L’ironia è che non ero gay». L’agire fuori dagli schemi tradizionali lo aveva spinto verso la sottocultura omosessuale: «Mi piaceva l’idea di questi locali e di queste persone e il fatto che tutto ciò che li circondava fosse qualcosa di cui nessuno sapeva nulla…», spiegò in seguito, « […] così mi attirava follemente. Era come un altro mondo in cui volevo realmente entrare». A questo si aggiunge il capitolo, ben noto, dello smodato uso di droghe e di altri vizi.
Matteo Orlando