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Il governo olandese, scrive l’AdnKronos, ha deciso di estendere l’eutanasia anche a bambini sotto i 12 anni affetti da malattie terminali, in linea con la proposta presentata dal ministro della Salute, Ernst Kuipers. Il provvedimento dovrebbe essere approvato entro l’anno. Riguarderebbe, secondo il ministero della Salute, un numero di bambini tra i 5 e i 10 all’anno.
Ricordiamo che in Olanda l’eutanasia ha causato nel 2020 quasi 7000 morti (in Italia sarebbero più del triplo, considerando un semplice calcolo grezzo di popolazione, e senza considerare altri fattori, come l’età media elevata). Si tratta di 21000 morti all’anno solo per eutanasia, non so se è chiara la mostruosità del dato. Personalmente ho molti dubbi su queste stime numeriche, cioè quella del 5-10.
Vorrei proporre una considerazione spirituale e una citazione magisteriale. Sotto gli articoli Facebook de La Repubblica e La Stampa che riportano questa notizia è un proliferare di like e cuoricini. Considerando che per dottrina cattolica noi sappiamo perfettamente che questo dell’eutanasia è un male gravissimo, dobbiamo constatare, per l’ennesima volta, quanto la cultura progressista inverta il male col bene, chiami bene ciò che è male e male ciò che è bene. Dal punto di vista spirituale il significato di questa dinamica è chiarissimo e non necessita di approfondimenti.
Per quanto riguarda la citazione, mi permetto di condividere un lungo paragrafo della Samaritanus Bonus (5.6. L’accompagnamento e la cura in età prenatale e pediatrica), la bellissima lettera del 2020 della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita. Io consiglio di leggerla tutta, perché si tratta davvero di un testo bellissimo, forse uno dei più belli prodotti durante questo pontificato. Intanto però, posto questo paragrafo affinché noi cattolici non ci facciamo trovare impreparati, e possiamo combattere ben armati, per la salvezza dei deboli, dei sofferenti e delle anime.
- L’accompagnamento e la cura in età prenatale e pediatrica
In relazione all’accompagnamento dei neonati e dei bambini colpiti da malattie croniche degenerative incompatibili con la vita o nelle fasi terminali della vita stessa, è necessario ribadire quanto segue, nella consapevolezza della necessità di sviluppare una strategia operativa capace di garantire qualità e benessere al bambino e alla sua famiglia.
Fin dal concepimento, i bambini affetti da malformazioni o patologie di qualsiasi genere sono piccoli pazienti che la medicina oggi è sempre in grado di assistere e accompagnare in maniera rispettosa della vita. La loro vita è sacra, unica, irripetibile ed inviolabile, esattamente come quella di ogni persona adulta.
In caso di patologie prenatali cosiddette “incompatibili con la vita” – cioè che sicuramente porteranno a morte entro breve lasso di tempo – e in assenza di terapie fetali o neonatali in grado di migliorare le condizioni di salute di questi bambini, in nessun modo essi vanno abbandonati sul piano assistenziale, ma vanno accompagnati come ogni altro paziente fino al sopraggiungere della morte naturale; il comfort care perinatale favorisce in tal senso un percorso assistenziale integrato, che al supporto dei medici e degli operatori della pastorale affianca la presenza costante della famiglia. Il bambino è un paziente speciale e richiede da parte dell’accompagnatore una preparazione particolare sia in termini di conoscenza sia di presenza. L’accompagnamento empatico di un bambino in fase terminale, che è fra i più delicati, ha lo scopo di aggiungere vita agli anni del bambino e non anni alla sua vita.
Gli Hospice Perinatali, in particolare, forniscono un essenziale supporto alle famiglie che accolgono la nascita di un figlio in condizioni di fragilità. In tali contesti, l’accompagnamento medico competente e il supporto di altre famiglie-testimoni che sono passate attraverso la medesima esperienza di dolore e perdita costituiscono un’essenziale risorsa, accanto al necessario accompagnamento spirituale di queste famiglie. È dovere pastorale degli operatori sanitari di ispirazione cristiana adoperarsi per favorirne la massima diffusione nel mondo.
Tutto ciò si rivela particolarmente necessario nei confronti di quei bambini che, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, sono destinati a morire subito dopo il parto o a breve distanza di tempo. Prendersi cura di questi bambini aiuta i genitori ad elaborare il lutto e a concepirlo non soltanto come perdita, ma come tappa di un cammino d’amore percorso assieme al figlio.
Purtroppo la cultura oggi dominante non promuove questo approccio: a livello sociale, l’uso a volte ossessivo della diagnosi prenatale e l’affermarsi di una cultura ostile alla disabilità inducono spesso alla scelta dell’aborto, giungendo a configurarlo come pratica di “prevenzione”. Esso consiste nell’uccisione deliberata di una vita umana innocente e come tale non è mai lecito. L’utilizzo delle diagnosi prenatali per finalità selettive, pertanto, è contrario alla dignità della persona e gravemente illecito perché espressione di una mentalità eugenetica. In altri casi, dopo la nascita, la medesima cultura porta alla sospensione o al non inizio delle cure al bambino appena nato, per la presenza o addirittura solo per la possibilità che sviluppi nel futuro una disabilità. Anche questo approccio, di matrice utilitarista, non può essere approvato. Una simile procedura, oltre che disumana, è gravemente illecita dal punto di vista morale.
Principio fondamentale dell’assistenza pediatrica è che il bambino nella fase finale della vita ha diritto al rispetto e alla cura della sua persona, evitando sia l’accanimento terapeutico e di ostinazione irragionevole sia ogni anticipazione intenzionale della sua morte. In prospettiva cristiana, la cura pastorale di un bambino malato terminale invoca la partecipazione alla vita divina nel Battesimo e nella Cresima.
Nella fase terminale del decorso di una malattia inguaribile, anche qualora vengano sospese le terapie farmacologiche o di altra natura, volte a contrastare la patologia di cui soffre il bambino, in quanto non più appropriate alla sua deteriorata condizione clinica e ritenute dai medici come futili o eccessivamente gravose per lui, in quanto causa di ulteriore sofferenza, non deve però mai venire meno la cura integrale della persona del piccolo malato, nelle sue diverse dimensioni fisiologiche, psicologiche, affettive-relazionali e spirituali. Curare non significa solo praticare una terapia e guarire; così come interrompere una terapia, quando essa non giova più al bambino inguaribile, non implica sospendere le cure efficaci per sostenere le funzioni fisiologiche essenziali per la vita del piccolo paziente, finché il suo organismo è in grado di beneficiarne (supporti all’idratazione, alla nutrizione, alla termoregolazione e ad altri ancora, nella misura in cui questi siano richiesti per supportare l’omeostasi corporea e ridurre la sofferenza d’organo e sistemica). L’astensione da ogni ostinazione terapeutica nella somministrazione dei trattamenti giudicati inefficaci non deve essere desistenza curativa, ma deve mantenere aperto il percorso di accompagnamento alla morte. Semmai si deve valutare che anche interventi routinari, come l’aiuto alla respirazione, vengano forniti in maniera indolore e proporzionata, personalizzando sul paziente l’adeguato tipo di aiuto, per evitare che la giusta premura per la vita non contrasti con una ingiusta imposizione di dolore evitabile.
In tale contesto, la valutazione e la gestione del dolore fisico del neonato e del bambino è essenziale per rispettarlo e accompagnarlo nelle fasi più stressanti della malattia. Cure personalizzate e dolci, oggi ormai verificate nell’assistenza clinica pediatrica, affiancate dalla presenza dei genitori, rendono possibile una gestione integrata e più efficace di qualunque intervento assistenziale.
Il mantenimento del legame affettivo tra genitori e figlio è parte integrante del processo di cura. Il rapporto di accudimento e di accompagnamento genitore-bambino va favorito con tutti gli strumenti necessari e costituisce parte fondamentale della cura, anche per le patologie non guaribili e le situazioni ad evoluzione terminale. Oltre al contatto affettivo, non si deve dimenticare il momento spirituale. La preghiera delle persone vicine, all’intenzione del bambino malato, ha un valore soprannaturale che sorpassa e approfondisce il rapporto affettivo.
Il concetto etico/giuridico del “miglior interesse del minore” – oggi utilizzato per effettuare la valutazione costi-benefici delle cure da effettuare – in nessun modo può costituire il fondamento per decidere di abbreviare la sua vita al fine di evitargli delle sofferenze, con azioni od omissioni che per loro natura o nell’intenzione si possono configurare come eutanasiche. Come si è detto, la sospensione di terapie sproporzionate non può condurre alla sospensione di quelle cure di base necessarie ad accompagnarlo ad una morte naturale dignitosa, incluse quelle per alleviare il dolore, e neppure alla sospensione di quell’attenzione spirituale che si offre a colui che presto incontrerà Dio.