essaLa liturgia della parola è uno dei momenti che spesso non è molto curato. Vediamo prima che ne dice l’OGMR: “57. Nelle letture viene preparata ai fedeli la mensa della parola di Dio e vengono loro aperti i tesori della Bibbia. Conviene quindi che si osservi l’ordine delle letture bibliche, con il quale è messa meglio in luce l’unità dei due Testamenti e della storia della salvezza; non è permesso quindi sostituire con altri testi non biblici le letture e il salmo responsoriale, che contengono la parola di Dio. 58. Nella celebrazione della Messa con il popolo, le letture si proclamano sempre dall’ambone. 59. Il compito di proclamare le letture, secondo la tradizione, non è competenza specifica di colui che presiede, ma di altri ministri. Le letture quindi siano proclamate da un lettore, il Vangelo sia invece proclamato dal diacono o, in sua assenza, da un altro sacerdote. Se non è presente un diacono o un altro sacerdote, lo stesso sacerdote celebrante legga il Vangelo; e se manca un lettore idoneo, il sacerdote celebrante proclami anche le altre letture. Dopo le singole letture il lettore pronuncia l’acclamazione e il popolo riunito con la sua risposta dà onore alla parola di Dio, accolta con fede e con animo grato”. Mi limito qui a parlare di prima e seconda lettura, escludendo il salmo responsoriale e il vangelo che verrà commentato in seguito.
Ora, si parla di “lettore idoneo”. Significa che il criterio per chi legge non dovrebbe essere quello di essere seduto casualmente al primo banco, ma di avere una capacità di lettura buona. Mi sembra buon uso quello dei lettori che si riuniscono alla fine della colletta, si inchinano all’altare e insieme vanno all’ambone, aspettando il proprio turno per leggere. Eviterei di far leggere qualcuno che entra in Chiesa per la prima volta e che aspetta cenni di rassicurazione per decidere che – guarda un pò – tutti stanno aspettando che si muova per andare a leggere. Anche comunicherei ai oettori che non è necessario dire “prima lettura” o “seconda lettura” perché, almeno quello, lo sappiamo già. Mi assicurerei che il lettore eviti di leggere le didascalie del lezionario e che alla fine pronunci la formula di invito per la risposta dell’assemblea. Vi sarà capitato di partecipare a quel momento imbarazzante in cui il lettore non pronuncia la formula e il celebrante la dice con un sommesso imbarazzo. Sarebbe meglio evitarlo.
Proclamare non è interpretare. Il focus è la parola di Dio, non la nostra bella voce. Certo, una lettura corretta è il minimo da richiedere. Una lettura in cui gli influssi dialettali ci possano essere (come si sentono in tutti) ma che non siano pesanti in modo che qualcuno da un’altra regione potrebbe avere problemi a comprendere.
So che sto per dire una cosa impopolare, ma a me piacerebbe le letture venissero cantillate, proprio per sottrarle all’abuso della lingua quotidiana. Il padre James W. Jackson, in un bel libro sulla forma straordinaria del rito romano, dice una bella cosa che potremmo applicare anche alla forma ordinaria: “il pericolo di tentare di rendere più interessanti le letture con artifici retorici deve essere anche evitato. Ricordo di avere avuto istruzioni in Seminario (non uno della Fraternità di San Pietro) di non leggere la Parola di Dio, ma di “proclamarla”. Questo porta il lettore o il sacerdote ad imporre proprio emozioni e accenti al testo – emozioni e accenti che sono assenti nei testi. Leggere la Scrittura nella liturgia in Latino, o prima della predica nella lingua volgare, non è recitare; piuttosto; il lettore deve concedersi di essere uno strumento umile della parola che viene dal cielo. I suoi occhi dovrebbero essere abbassati, la sua voce piana, i suoi gesti non esistenti. Egli non deve essere l’oggetto dell’attenzione (“Nothing superflous”, mia traduzione).
Ecco, questo è il motivo per cui io penso che cantillare le letture, almeno per grandi solennità, potrebbe essere una soluzione. Ma la vedo difficile, visti i tempi.
Aurelio Porfiri