L’atto penitenziale è il momento in cui davanti alla comunità cristiana ci riconosciamo per quello che siamo: peccatori. Ecco come lo presenta l’Ordinamento Generale per il Messale Romano: “Quindi il sacerdote invita all’atto penitenziale, che, dopo una breve pausa di silenzio, viene compiuto da tutta la comunità mediante una formula di confessione generale, e si conclude con l’assoluzione del sacerdote, che tuttavia non ha lo stesso valore del sacramento della Penitenza. La domenica, specialmente nel tempo pasquale, in circostanze particolari, si può sostituire il consueto atto penitenziale con la benedizione e l’aspersione dell’acqua in memoria del Battesimo”.
Come detto, l’atto penitenziale non ha il valore di una confessione. Lo spiega bene don Gianni Cioli in risposta ad un lettore sul periodico “Toscana Oggi” (5/6/2013): “Eliminare la necessità della confessione dei peccati gravi per ottenerne il perdono non aiuterebbe il cammino di conversione e rischierebbe, invece, di mascherare alla coscienza del credente la bellezza del perdono di Dio riducendolo ad un evento automatico e, in sostanza, ad una «grazia a buon mercato». La necessità di chiamare i peccati per nome allena la coscienza ad esercitare il proprio esame e a maturare progressivamente nella capacità di discernere il bene e il male. Lo stesso imbarazzo che il penitente può sperimentare di fronte alla confessione, e che il lettore giudica una ragione in favore dell’assoluzione generale, mi pare piuttosto un indicatore della serietà dei peccati “seri” che non sarebbe saggio risolvere con un indistinto “colpo di spugna”. Infine direi che il confronto franco con il ministro della chiesa, possibile nella confessione, è la strada più opportuna per elaborare un percorso penitenziale adeguato a risanare le ferite prodotte dai peccati dentro e fuori di noi”.
Dovrebbe essere enfatizzato che in questo momento non si fa terapia di gruppo, ma si chiede perdono a Dio per primo e poi agli altri, per le nostre debolezze umane. Questo “per celebrare degnamente i santi misteri”. Cioè, la dignità della nostra partecipazione è legata al riconoscere ciò che siamo. Non facciamo i santocchioni. Michael Kunzler, in un suo libro del 2003 (“La liturgia della Chiesa”) discute se la collocazione di questo momento rituale sia giusta nell’ambito della celebrazione. Certo si potrebbe discutere. Quello che non bisogna dimenticare è che il perdono in questo caso si chiede prima in orizzontale e poi in verticale: prima a Dio e poi ai fratelli.
Aurelio Porfiri