Credo che uno dei momenti della nuova liturgia che più ha dato adito a controversie è senz’altro la preghiera dei fedeli. In una risposta su Famiglia Cristiana proprio sul senso di questa preghiera, il liturgista Silvano Sirboni diceva: “Fin dal 1966 la riforma conciliare ha ripristinato l’antica preghiera dei fedeli per superare quell’individualismo che da tempo condizionava la partecipazione dei credenti alla Messa. Con questa preghiera comune si vuole esprimere l’universalità del sacrificio di Cristo e della preghiera cristiana. Si tratta, infatti, di pregare «per le necessità della Chiesa, per il mondo, per quelli che si trovano in difficoltà e per la comunità locale». E questo non in modo vago e asettico, ma in riferimento alle concrete situazioni del mondo e della comunità locale.
Gli stessi sussidi lasciano lo spazio per le intenzioni particolari dove il gruppo liturgico, se non formula tutta la preghiera dei fedeli, può opportunamente aggiungere quelle intenzioni che rendono vero e attuale questo rito”. Questo almeno nelle intenzioni. La realtà purtroppo non è stata sempre così rosea e la preghiera dei fedeli è stato il luogo dove si è chiesto qualunque cosa, pregando spesso a vanvera.
Il vaticanista Sandro Magister anche osservava: “In effetti la preghiera dei fedeli, che quando non è “ad libitum” è letta quasi ovunque su foglietti compilati e stampati da anonimi pseudoliturgisti, è ormai diventata la palestra dei peggiori luoghi comuni”. Insomma, dalle pie intenzioni si è poi giunto a risultati non sempre all’altezza delle stesse.
Questo perché si è posta una fiducia astratta nel popolo, nella sua capacità liturgiche e nel modo in cui lo stesso andrebbe coinvolto nella liturgia. Il concetto di partecipazione si è facilmente svolto nel senso del partecipazionismo, facciamo che tutti possano fare qualcosa. Il fare ha prevalso sull’essere. Aldo Maria Valli, nel suo recente “Come la Chiesa finì”, ci offre un ironico vocabolario in cui ci da questa definizione di popolo per come lo vede la nuova Chiesa Accogliente: “Ha sempre ragione, è praticamente santo. Parola da utilizzare a profusione. Il popolo non può sbagliare. Può solo essere oppresso e sfruttato. I movimenti che lo rappresentano vanno accolti a braccia aperte ed elogiati. I capipopolo sono simpatici. Se sostengono idee assurde e dicono banalità, non si deve farci caso. Ancora meno se si comportano da tiranni. Sottolineare invece la bellezza dei loro abiti colorati”. Insomma, questa idea “astratta” del popolo ha guidato tante decisioni sulla liturgia, incluse quelle per la preghiera dei fedeli. Ma quel popolo, tranne che nell’intellettualismo di certi liturgisti, nella realtà non esiste. Ne parleremo ancora.
Aurelio Porfiri